Pneumotorace

Con il termine di pneumotorace si definisce una patologia toracica dov’è coinvolto il polmone, la pleura e la parete toracica.

Nel pneumotorace si viene a creare una spazio anomalo gassoso, o meglio di aria, nello zona tra il polmone e la parete toracica, ovvero nel cavo pleurico.

Pneumotorace 01Anatomia nel pneumotorace

Il cavo pleurico è lo spazio esistente tra la pleura viscerale e la pleura parietale.

La pleura è una membrana di tipo sierosa che si ripiega su se stessa, formando per l’appunto lo spazio del cavo pleurico, contenente del liquido, necessario per favorire lo scorrimento delle due membrane, senza generare attriti.

Pneumotorace 02La pleura viscerale è interna ed è adesa al polmone e ai suoi annessi; non ha innervazione sensitiva nocicettiva.

La pleura parietale è esterna ed è adesa alla parete toracica; è ben innervata dalle fibre nocicettive e pertanto è molto sensibile agli stimoli dolorosi.

L’aria che si forma in maniera anomala nella cavità pleurica, comprime il polmone e ne impedisce la corretta espansione, con una conseguente riduzione della funzionalità polmonare.

Sintomatologia

I sintomi che si associano al pneumotorace possono variare a seconda dell’entità con cui si presenta la patologia.

Nelle forme lievi, i sintomi possono essere sfumati o a dir poco vaghi, mentre ne casi più gravi le manifestazioni cliniche possono avere varie sfaccettature:

  • dispnea (respirazione faticosa)
  • ipossia (riduzione dell’ossigenazione)
  • parestesie e manifestazioni cianotiche periferiche
  • affaticamento
  • tachicardia
  • spossatezza
  • dolore e/o oppressione toracica
  • dolore interscapolare
  • dolore all’inspirazione e nell’espirazione profonda
  • sensazione di crepitio nell’atto inspiratorio.

CauseCom’è comprensibile, molte di queste manifestazioni possono richiedere il ricovero del paziente per assistenza primaria ospedaliera, scongiurandone il precipitare delle condizioni cliniche e stabilizzandolo nelle funzioni primarie.

Come precedentemente detto, il pneumotorace si manifesta quando si crea una bolla di aria tra la pleura viscerale e quella parietale, ovvero nel cavo pleurico, generando una pressione anomala, non più negativa, che fa collassare il polmone su se stesso, pertanto proprio l’aria penetrata nella cavità pleurica, ostacola l’adesione del polmone alle pareti interne del torace riducendone la capacità di espansione.

Classificazione del pneumotorace

Il pneumotorace viene catalogato in 3 forme principali:

  • spontaneo

Compare improvvisamente in forma primaria, vale a dire senza problematiche polmonari di base, o secondaria, per la presenza di patologie polmonari persistenti, che minano la salute del polmone e dei suoi tessuti contigui.

Tra le patologie secondarie sono di grande incidenza l’asma acuta, l’enfisema polmonare, la broncopneumopatia cronico ostruttiva, la pertosse, le infezioni polmonari, la fibrosi polmonare, la fibrosi cistica, il tabagismo.

  • traumatici

Causato da lesioni toraciche esterne, che ledono l’integrità sia della gabba toracica sia del polmone stesso, oppure da fratture costali, che se scomposte, possono danneggiare l’integrità del cavo pleurico per via dello steso moncone di frattura.

Nel pneumotorace di tipo traumatico, è molto alta la probabilità che si possa associare un emo-pneumotorce, per la presenza di sangue associato alla bolla gassosa.

  • iatrogeno

Secondario in maniera diretta o indiretta ad intervento preventivo, diagnostico o terapeutico, come ad esempio nelle biopsie pleuriche, durante l’esecuzione di ago aspirato trans toracico e similari.

Diagnosi del pneumotorace

Nella diagnosi del pneumotorace purtroppo l’insieme dei segni e dei sintomi possono non essere sufficienti, perché rientrano in un quadro diagnostico differenziale con altre numerose patologie polmonari e bronchiali.

Pneumotorace 04Vero è che soprattutto nel pneumotorace spontaneo e in quelle secondario, l’anamnesi può indirizzare ad un’ipotesi diagnostica, ma sarà comunque sempre necessario supportare il sospetto di pneumotorace, tramite le indagini diagnostiche quali TC ed RX, capaci di evidenziare la presenza dell’eventuale collasso polmonare.

Più facile è ipotizzare la diagnosi di pneumotorace nelle categorie traumatiche, ma anche in questo caso la conferma può essere data solamente per mezzo delle indagini diagnostiche sopra citate.

Trattamento

Il trattamento del pneumotorace prevede la riduzione della pressione gassosa che comprime il polmone, potendo in tal modo favorirne la riespansione.

Se il pneumotorace si manifesta in maniera asintomatica, senza danni di funzione associati e lesioni al polmone, generalmente tende a risolversi in maniera autonoma nell’arco di 10-15 giorni, favorendo la strategia di una scelta conservativa, senza ovvero intervenire, ma monitorando il paziente sia nelle condizioni cliniche, che in quelle anatomopatologiche.

Pneumotorace 05Nelle situazioni in cui il pneumotorace dia sintomatologia associata ad un collasso importante, che lede la funzione di organo stesso, si procede al drenaggio toracico, dove viene aspirata la bolla gassosa nello spazio pleurico, creando un vuoto pleurico mantenuto costante, da alcune ore fino ad alcuni giorni, a seconda della gravità del collasso polmonare.

Se il drenaggio toracico non dovesse dare effetto, si può optare per l’intervento chirurgico, dove si hanno due strategie:

  • la pleurodesi, per favorire l’adesione del polmone alla parete toracica
  • la pleurectomia, dove viene eliminata per asportazione, una porzione della pleura parietale.

Pneumotorace 06L’intervento chirurgico può diventare anche una strategia di cura nel momento in cui il paziente dovesse subire recidive ricorrenti.

E’ importante che il paziente, una volta stabilizzato il pneumotorace e riportato ad una condizione di optimum clinico, intraprenda un percorso di terapia riabilitativa, per ottimizzare il recupero delle funzioni polmonari e toraciche, con l’intento di migliorare al massimo le performance respiratorie e di ridurre drasticamente il rischio di recidive.

 

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Reflusso biliare

Il reflusso biliare è una risalita della bile dal duodeno verso lo stomaco e nei casi più gravi anche nell’esofago.

Anatomia e reflusso biliare?

Cos'è il reflusso biliareIl duodeno è il proseguimento del tubo digerente, che si diparte dallo stomaco, continuando il suo percorso come piccolo intestino, ed è separato dallo stomaco attraverso una valvola chiamata piloro.

Il piloro è la valvola ultima dello stomaco che ha il compito di aprirsi, per mezzo di uno stimolo riflesso, meccanico-chimico, al passaggio del cibo nel proseguo del tubo digerente.

Nel duodeno si riversano dei liquidi importantissimi per il processo di digestione dei cibi ingeriti, tra di loro troviamo la bile, i succhi pancreatici e ovviamente i succhi gastrici.

 

La bile: cos’è e a cosa serve?

E’ è un liquido di colore giallo-verde, prodotto dal fegato e raccolto nella cistifellea, che ha la funzione di digerire i grassi e le vitamine liposolubili (A-D-E-K-F).

BileLa bile esce dal fegato tramite il dotto epatico comune, unendosi a seguire con il dotto cistico proveniente dalla colecisti; questa unione di dotti prendono il nome di  coledoco (dotto biliare comune).

Il coledoco si indirizza verso il duodeno dove avrà accesso tramite l’ampolla di Vater, utilizzando l’apertura della valvola (sfintere) di Oddi.

Se lo sfintere di Oddi non fa defluire la bile nel duodeno, questa verrà raccolta nella cistifellea in attesa di essere utilizzata nel pasto a seguire.

La bile ha un Ph neutro tendente al basico, ha una grossa percentuale di acqua, oltre il 90%, mentre per il resto si trovano varie sostanze quali: bilirubina, acidi biliari, fosfolipidi, colesterolo, elettroliti, proteine.

La bile oltre che digerire i grassi e alcuni tipi di vitamine (sopra elencate), ha anche altre funzioni molto importanti:

  • elimina la bilirubina che si produce per mezzo della degradazione dell’emoglobina
  • i sali biliari contenuti nella bile uccidono molti dei microbi nocivi introdotti nel corpo attraverso il cibo.
  • elimina le sostanze tossiche endogene ed esogene
  • coadiuva la peristalsi intestinale
  • riduce l’acidità dei succhi gastrici nel momento in cui si affacciano nel duodeno.

Le risposte

Reflusso biliareAlla domanda cosa sia il reflusso biliare, adesso rimane più facile dare una risposta.

Il reflusso biliare è una risalita della bile verso lo stomaco, attraversando l’antro pilorico, in un percorso contrario a quello che dovrebbe normalmente avere.

La forma oblungata, alle volte anche eccessivamente, dello stomaco, crea un ristagno della bile in esso e anche se di natura tendenzialmente basica e quindi di contrasto all’ acidità dei succhi gastrici, proprio per le sue caratteristiche organolettiche, tenderà a creare un’infiammazione della mucosa gastrica, che se prolungata nel tempo, potrà portare ad un’alterazione delle sue cellule.

Nei casi di grave mancanza di contenimento delle valvole, la perdita di continenza del cardias (la valvola che si interpone tra l’esofago e lo stomaco), potrà favorire la risalita di bile ancora più in alto e quindi nell’esofago, provocando un’esofagite da reflusso gastro-biliare.

Quali sono le cause che portano ad un’incontinenza del piloro ed eventualmente del cardias?

VisceriI visceri addominali, come anche quelli toracici, hanno bisogno di mantenere una relazione anatomica rispetto alle strutture di sostegno e  rispetto ai collegamenti tra organo ed organo.

Devono inoltre mantenere una capacità di resistenza ed elasticità rispetto ai movimenti e alle posture che il corpo umano compie e adotta quotidianamente.

Inoltre devono resistere e contrastare le forze pressorie che si sviluppano tanto nell’addome quanto nel torace.

Quando i visceri perdono queste capacità, si ha una perdita di posizione e di rapporto, per cui può essere danneggiata la funzione propria, la meccanica di contenimento e transizione.

A questo punto, potremo ritrovare tra le varie problematiche che si innescano, anche la cattiva chiusura della valvola pilorica e di quella del cardias.

Un’ altra causa-effetto del reflusso biliare, si può associare ai periodi post colecistectomia, dove l’asportazione chirurgica della cistifellea, elimina la possibilità di raccogliere la bile nel suo contenitore naturale.

Per questo motivo sarà maggiormente facilitato l’afflusso di bile direttamente nel duodeno e da lì risalire nello stomaco, qualora fosse presente un’incontinenza della valvola pilorica.

Altro intervento che può favorire il reflusso di bile è la resezione gastrica, dove cambia la conformazione del stomaco stesso per volume e forma, così come cambiano gli ancoraggi dello stomaco rispetto alla cavità addominale.

ConatiI sintomi: quali sono?

  • bruciore in zona gastrica, alle volte anche in sede sotto e retro sternale
  • dolore alla palpazione delle zone suddette
  • difficoltà nella digestione
  • nausee
  • vomito di colore giallo-verde
  • tosse / bruciore faringeo
  • disturbi nella qualità fonatoria

L’importanza di una corretta diagnosi

La diagnosi vede nell’anamnesi una tappa necessaria, per capire dove i sintomi del paziente indirizzano nel ragionamento clinico e nell’ipotesi patologica.

Esame fondamentale è la gastroscopia, che permette di vedere direttamente la presenza di liquido biliare nello stomaco, lo stato anatomico delle valvole, piloro e cardias.

Non di meno, di valutare lo stato di salute cellulare sia dello stomaco che dell’esofago e nel caso ce ne fosse bisogno, di fare una biopsia delle cellule valutate da controllare, per conoscerne il tipo di mutamento che si presenta.

Come si cura il reflusso biliare?

E’ da dire che le cure farmacologiche indirizzate non sono molte, però sono sufficientemente efficaci:

  • farmaci che aumentano la cinetica intestinale, aiutando a far defluire la secrezione di bile nell’intestino tenue
  • farmaci che incarcerano gli acidi biliari, riducendo il fattore primario irritativo nei confronti della mucosa gastrica, acidi che poi verranno eliminati tramite le feci.

Gli antiacidi utilizzati generalmente nel reflusso gastrico, non hanno efficacia sufficiente nella patologia del reflusso biliare.

L’alimentazione

E’ molto importante invece curare l’alimentazione, mangiare moderatamente, riducendo al minimo cibi grassi, zuccheri, alcol, sostanze piccanti e acide, caffeina, cioccolata, mentre è di grande aiuto bere parecchia acqua e cercare di ridurre la massa grassa.

Il ruolo della fisioterapia e dell’osteopatia nel trattamento del reflusso biliare

Terapia manuale visceraleLa fisioterapia e l’osteopatia sono molto utili nel contrastare le patologie da reflusso, interagendo su vari parametri:

  • la postura
  • i rapporti di pressioni toraco-addomino-pelvici
  • la mobilità intestinale
  • i rapporti anatomici tra i vari segmenti del tubo digerente e i loro organi contigui
  • la gestione della ptosi viscerale addominale
  • l’influenza neurovegetativa sul processo digestivo e sulla mobilità intestinale

Lavorando su tutti questi fattori, si è in grado di migliorare il funzionamento digestivo sia nell’elaborazione del cibo, sia nella secrezione biliare e dei succhi gastrici, sia nello scorrimento del bolo alimentare nel percorso obbligato del tubo digerente.

Sapere cosa sia un reflusso biliare e cosa comporta, ci permetterà di prevenire le sue complicanze, mettendoci nella condizione di poterla affrontare per ridurne al minimo il disagio correlato.

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Alluce valgo: sintomi, diagnosi e cura

Alluce_Valgo_01L’alluce valgo è tra le più comuni patologie del piede: si tratta di una disfunzione dovuta allo spostamento verso l’esterno della base dell’alluce.

Anatomia del piede

Il piede è una struttura anatomica che interagisce con la superficie di appoggio, organizzando le proprie articolazioni per espletare una parte statica e dinamica, in maniera sincrona e coordinata.

Manifesta una perfezione anatomica per mezzo di molteplici articolazioni, strutture muscolari e legamentose, capaci di interagire tra di loro con un’armonia unica; ha 3 macro aree divise in:

  • Retropiede
  • Mesopiede
  • Avampiede

Alluce_Valgo_02Il retropiede ha il compito di scaricare il peso del corpo al suolo.

L’avampiede ha un doppio ruolo:

  • di spinta nella fase del passo, utilizzando come motore primario l’alluce
  • di adattamento fine del piede al terreno rispetto alla superficie di appoggio.

Il mesopiede deve coordinare il retropiede e l’avampiede creando una relazione di intenti, per mezzo della porzione centrale degli archi plantari interni ed esterni.

Il piede gioca un ruolo fondamentale nel movimento, nella statica in posizione eretta e nella postura, ed è proprio per questo che ogni sua alterazione, stabilizzata nel tempo in maniera strutturale e non funzionale, rischia di creare gravi squilibri al corpo del paziente sia localmente che a distanza.

Alluce_Valgo_03L’alluce valgo è una deviazione dell’asse del 1º dito del piede rispetto al metatarso, coinvolgendo l’ articolazione metatarso-falangea.

Il primo dito devia verso il bordo esterno del piede avvicinandosi in maniera eccessiva al secondo dito, mentre l’articolazione prima citata andrà a spostarsi verso il bordo interno del piede.

Questo cambiamento anatomico porta oltre ad una modificazione diretta dell’alluce, anche il possibile abbassamento della volta plantare interna, che scenderà verso il pavimento, una deviazione del secondo dito e una perdita di altezza della volta plantare trasversa, con la conseguente discesa dell’arco metatarsale.

L’articolazione metatarso-falangea vedrà sviluppare una deformazione che porterà ad un rossore della cute, un gonfiore, una dolenzia e nei casi più gravi una rigidità dell’articolazione del primo dito, con conseguente cambiamento della meccanica articolare, nella fase di spinta durante il passo e nell’adattamento fine del piede rispetto al terreno di appoggio.

Sintomatologia dell’alluce valgo

I sintomi inizialmente non sono presenti e si affacciano ma mano che la situazione perdura o evolve.

Alluce_Valgo_04Da una condizione di asintomatologia si passa nel tempo ad attacchi acuti di dolore e infiammazione della zona sporgente ovvero dell’articolazione metacarpo-falangea che si gonfia e si infiamma, creando una capsulite e nei casi più gravi anche una tendinite.

Quando la condizione di alluce valgo instaurerà una limitazione della funzione articolare ci sarà una ripercussione sulla postura di tutto il piede sia nella fase statica che in quella dinamica ovvero durante il passo e nella corsa.

La cute della protuberanza osteoarticolare è spesso soggetta a sfregamento e per questo può andare incontro ipercheratosi, con un ispessimento della pelle con gonfiore associato.

Alluce_Valgo_05Il cambiamento della pelle può provocare una lacerazione della cute stessa e callosità che alterano la sensibilità del piede portandolo ad assumere posture scorrette per sfuggire il dolore.

Non è raro vedere che lo stesso alluce valgo produca una deviazione delle dita vicino, il secondo dito in maniera particolare, che si adattano per far spazio all’invasione di territorio del primo dito.

Cause dell’alluce valgo

L’alluce valgo generalmente si manifesta in età adulta per situazioni congenite o acquisite.

Alluce_Valgo_06Tra le varie cause possiamo trovare:

  • familiarità
  • predisposizione
  • piattismo del piede di tipo statico, dinamico o combinato
  • forma infiammatoria artritica
  • scarpe inadeguate perché eccessivamente strette in punta
  • scarpe con il tacco alto
  • gotta
  • lunghezza eccessiva del primo dito.

Diagnosi

Alluce_Valgo_07

Per la diagnosi l’esame visivo potrebbe essere sufficiente ma è solo per merito di una radiografia che possiamo valutare un angolo preciso di deviazione metacarpo falangea.

Risulta molto utile anche l’esame baropodometrico perché ci permetterà di stabilire qual è la posizione del piede in appoggio o durante il passo, individuando i difetti di carico e su quali zone si concentrano.

Trattamento dell’alluce valgo

Lo possiamo dividere in due grosse categorie:

  • conservativo
  • chirurgico

Conservativo

E’ utile l’utilizzo del giaccio quando l’articolazione del primo sarà infiammata, si farà attenzione ad utilizzare calzature adeguate, si utilizzeranno plantari che sostengano la volta plantare interna e trasversa dandogli la miglior forma possibile, ma senza rendere ipotonica la muscolatura inerente e tutori per raddrizzare e mantenere un buon asse tra il metacarpo e la prima falange.

Alluce_Valgo_08Nel trattamento è importante adoperarsi con la terapia manuale osteopatica per riallineare le articolazioni del piede in rapporto agli arti inferiore, al bacino e alla colonna vertebrale.

Ci deve essere poi il recupero fisioterapico per il riequilibrio muscolare delle catene del piede, dell’arto inferiore e del bacino.

Quando sarà necessario verranno utilizzati farmaci antinfiammatori o antidolorifici, per ridurre il processo infiammatorio stesso e il dolore, in modo da non alterare la dinamica del passo e la postura del segmento scheletrico.

Chirurgico

Alluce_Valgo_09Nel campo della chirurgia le modalità di intervenire sono diverse e si rifanno alla persona, allo stato di salute generale, al tipo di attività fisica che esercita, all’ attività ludica a cui si dedica.

Gli interventi chirurgici possono mostrare delle complicanze che nella maggior parte dei casi sono associate a rigidità del primo dito, ci possono essere poi delle forme infiammatorie reattive e ulteriori deviazioni di assi meccanici articolari.

Dobbiamo voler bene ai nostri piedi…prestiamoci attenzione!

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Distorsione di caviglia

Distorsione_caviglia_01La distorsione di caviglia è comunemente indicata per identificare una perdita di congruenza articolare tra la porzione del collo del piede e i malleoli.

Tipi di distorsione di caviglia

Vengono identificate due tipologie distorsive di massima:

  • esterna (la più frequente)
  • interna (più rara)

In realtà per distorsione di caviglia si intende qualunque tipo di movimento che possa alterare i rapporti articolari nei 3 piani dello spazio, a scapito delle componenti legamentose, capsulari e muscolo-tendinee.

Chiaramente alcune tipologie di distorsioni saranno a carico esclusivo di eventi traumatici importanti, alle volte addirittura di tipo fratturativo, ed è per questo che la categoria di massima viene suddivisa in STORTA ESTERNA e STORTA INTERNA di caviglia.

Il Piede

Cerchiamo prima di capire a grandi linee come è composto il piede, la sua articolarità rispetto alla gamba e che funzione svolge.

Il piede è diviso in 3 grandi porzioni:

  • Retropiede (zona posteriore del piede)
  • Mesopiede (zona centrale del piede)
  • Avampiede (zona anteriore del piede)

Distorsione_caviglia_02Queste 3 zone servono a scaricare il peso del corpo a terra, ad ammortizzare il carico statico e dinamico per via degli archi plantari, a trasferire la meccanica deambulatoria consentendo la massima spinta durante il passo.

Il piede si deve articolare rispetto alla gamba per merito della giunzione articolare tra l’astragalo e la pinza malleolare.

L’astragalo è l’osso più alto della zona del retropiede.

La pinza malleolare è la porzione articolare formata dalla parte terminale distale dell’osso peroneale e da quella dell’osso tibiale.

Come ogni articolazione, anche quella tra l’astragalo e la pinza malleolare è protetta, contenuta e guidata da legamenti, capsula articolare e muscoli, soprattutto quelli brevi (corti), sia quelli lunghi con una relazione tendinea importante.

Le distorsioni di caviglia possono avvenire per vari motivi e sono molti i fattori che la predispongono.

I traumi hanno un ruolo determinante e infatti spesso l’attività sportiva diventa una causa primaria.

E’ vero però che anche la predisposizione genetica ad una lassità dei tessuti molli e ad una formazione di tessuto connettivo meno resistente, predispone la caviglia and un cedimento strutturale nei movimenti di lateralità e rotazione associati.

Fattore importante per la salvaguardia dell’articolazione è il tono muscolare capace di tenere salde ma mobili, le articolazioni della caviglia stessa e del mesopiede.

Distorsione_caviglia_03Fondamentale diventa il sistema propriocettivo articolare che comunica con il cervello la posizione e le accelerazioni delle articolazioni rispetto ai fattori spazio-tempo;

il messaggio si trasmette per via midollare e ha un doppio feedback, ovvero dà una relazione immediata riflessa muscolare e una di adattamento volontario.

Nella distorsione di caviglia, l’astragalo (osso del retropiede incastonato nella pinza malleolare) fa un movimento esagerato rispetto alla sua normale capacità, tanto da creare un’ allargamento dello spazio intermalleolare, creando quella che si chiama diastasi della pinza malleolare.

Distorsione_caviglia_04A seconda di quanto sia stato esagerato il movimento distorsivo, si possono creare dei danni alle strutture legamentose, andando da un semplice stiramento (elongazione), ad una lesione parziale o totale delle fibre che li costituiscono.

La capsula articolare va incontro a stiramento creando un’infiammazione intrarticolare che genera gonfiore.

La comparsa di tumefazione si ha nel momento in cui lo stiramento causa una lacerazione dei tessuti, favorendo la fuoriuscita di sangue, che si espande nei tessuti contigui, fino a quando il gonfiore stesso ne blocca la fuoriuscita per aumento della pressione.

La muscolatura inerente andrà in spasmo di contrattura per difesa dell’articolazione e per riflesso condizionato dal dolore.

Le articolazioni perdono congruità nei rapporti articolari diretti con le strutture perimetriche e indiretti con le articolazioni con cui condividono fulcri di movimento.

La storta acuta di caviglia è la più violenta, ma non di rado si rivolgono a noi pazienti che, anche senza eventi traumatici, lamentano distorsioni manifeste nella banalità dei movimenti quotidiani, come camminare o salire e scendere dei gradini.

Il problema della storta di caviglia è che la cronicizzazione della stessa, porta i tessuti a diventare lassi e a non supportare più il contenimento articolare necessario per avere il giusto sostegno e la giusta solidità nelle attività deambulatorie quotidiane.

Le distorsioni di caviglia sono classificabili in vari gradi a seconda del danno di stiramento o di lesione parziale o totale stella strutture legamentose fino a poter arrivare al danno fratturativo delle componenti ossee.

Distorsione_caviglia_05La diagnosi

La diagnosi prevede come sempre un esame clinico che si baserà sull’ispezione visiva alla ricerca di zone di gonfiore e di tumefazione, sulla ricerca dei punti di dolore nelle zone critiche a carico delle strutture legamentose, della capsula articolare, dei muscoli e dei loro relativi tendini.

Si faranno dei test clinici sulla stabilità articolare, sulla valutazione dei range di movimento e sulla presenza di lassità dei tessuti molli, fino alla stima di eventuali sublussazioni provocate.

A seguire saranno indicati esami diagnostici di tipo radiografico per vedere l’integrità delle parti ossee, scongiurando eventuali danni fratturativi.

Esame ecografico per valutare lo stato di salute dei tessuti molli, in particolare dei legamenti articolari.

La RM che studia l’integrità di tutte le strutture conviventi nell’ articolazione e per l’articolazione, in maniera da poterle valutare ad ampio raggio e in maniera minuziosa.

La cura

Distorsione_caviglia_06La cura nelle prime fasi dell’acuzia prevede l’immobilizzazione e lo scarico da terra dell’arto in questione, l’utilizzo di una benda compressiva elastica in modo da ridurre lo stravaso per aumento della pressione dall’esterno, l’applicazione di ghiaccio come antinfiammatorio.

La cura nelle fasi post acuzia pone l’ attenzione sulla diminuzione dello stato infiammatorio, sul drenaggio dell’edema e della tumefazione eventualmente presente.

Distorsione_caviglia_07Sarà necessario l’utilizzo di un tutore o di un bendaggio funzionale, la scelta cambia a seconda della gravità dell’evento distorsivo, per tenere a riposo l’articolazione e i suoi tessuti molli e favorirne l’eventuale cicatrizzazione.

Lo scarico dell’arto inferiore a terra potrà variare con l’utilizzo di una stampella o due, per un periodo mutevole a seconda dell’entità del danno.

Si comincerà da subito a lavorare sul mantenimento del tono muscolare con esercizi isometrici per non creare stress all’articolazione.

Si manterrà l’articolarità minima consentita per evitare l’irrigidimento articolare, ma prestando attenzione a non riprodurre i parametri che hanno innescato la distorsione e senza mettere in stress i tessuti molli danneggiati e precedentemente individuati per via delle indagini strumentali.

Distorsione_caviglia_08La cura nella cronicizzazione dell’instabillità, prevede il completo recupero articolare, il miglioramento massimo del tono trofismo muscolare, l’equilibrio delle catene muscolari, la ricerca di eventuali compensi articolari instauratisi nell’immediato.

Questi possono manifestarsi sia sul piede stesso e sulle volte plantari, cosi come nella zona metatarsale e sulla dinamica di spinta del primo dito del piede durante la fase del passo, fino ad arrivare a portare compensi nella zona del ginocchio, in particolare sul cavo popliteo, sulla zona meniscale, per i cambiamenti di asse e di meccanica che il ginocchio potrebbe manifestare, fino ad arrivare alla zona del bacino con la sinfisi pubica e con l’articolazione sacro iliaca, per poi trovare ulteriori possibilità di accomodamento instaurato sulla colonna vertebrale.

Recupero propriocettivo articolare mirato ad integrare lo stato di equilibrio della zona lesa insieme al potenziamento di quello dell’intero arto inferiore, del bacino e della cerniera lombo sacrale.

La chirurgia permette la riparazione del danno legamentoso nel caso in cui ci sia rottura totale e instabilità articolare severa manifesta.

Può procede anche all’utilizzo di mezzi di sintesi ossei nel momento in cui si presenti una frattura.

L’uso di terapie farmacologiche in fase di cronicizzazione non ha grosse indicazione perché il problema è maggiormente a carico della funzione da recuperare.

Come abbiamo potuto capire, la distorsione di caviglia è un evento traumatico molto delicato che va affrontato con cura e attenzione.

La fisioterapia e l’osteopatia la fanno da padrona per poter riportare l’articolazione coinvolta, ad uno stato di buona salute, evitando la ricaduta con recidivanti.

Recuperare e riattivare l’articolazione sarà un beneficio per la caviglia ma anche per tutto il resto del corpo!

Aracnoidite

Con il termine di aracnoidite si descrive uno stato di infiammazione del tessuto aracnoideo che avvolge le strutture neurologiche quali il cervello e il midollo spinale.

aracnoidite infiammazioneAnatomia

L’aracnoide è una struttura che fa parte delle meningi e si interpone tra altri due foglietti meningei, individuati nella dura madre e nella pia madre.

L’aracnoide e la pia madre sono tra loro in stretta relazione perché connesse tramite tessuto connettivo e per tale motivo possono essere chiamate in maniera unitaria con il nome di leptomeningi.

L’aracnoide e con essa il sistema dei foglietti meningei, tappezzano la parte interna tanto della scatola cranica, tanto del canale vertebrale.

Tra l’aracnoide e la pia madre si crea uno spazio, chiamato spazio subaracnoideo, dove vi è contenuto il liquido cefalo-rachideo.

L’aracnoide è formata da tessuto connettivo fibroso ricco di collagene ed elastina ed è scarsamente vascolarizzata ed innervata.

aracnoidite anatomiaL’aracnoidite è una patologia con tendenza alla cronicizzazione; non se ne ha un’origine eziologica sufficientemente chiara e proprio per questo è difficile associarne una cura mirata.

Sono pochi i casi in cui l’aracnoidite coinvolge la porzione cerebrale e midollare; nella stragrande maggioranza delle volte la porzione maggiormente interessata è la radice spinale nel tratto intravertebrale/foraminale.

L’aracnoidite si forma per delle risposte infiammatorie che scatenano reazioni edematose nelle radici spinali, le quali possono evolvere se non bloccate per tempo, in un’alterazione del tessuto radicolare stesso, apportando danni alle cellule e mutandone le loro conformazioni.

L’aracnoidite può addirittura ostacolare la normale circolazione del liquido cefalo-rachideo, causando dolori vertebrali e cefalee.

L’aracnoidite adesiva è la forma più complessa, può avere un’ulteriore evoluzione nell’aracnoidite ossificante, mettendo il paziente a rischio di gravi disabilità.

ARACNOIDITE 2I sintomi della aracnoidite

I sintomi sono legati alla formazione di tessuto cicatriziale e di aderenze secondarie, che possono sfociare in forme sopra accennate di aracnoiditi adesive, a carico dei nervi contenuti nel canale vertebrale.

Questo comporta la comparsa di nevriti irritative/compressive e ancor peggio di deficit neurologici.

Tra i sintomi neurologici legati alla sensibilità, troviamo la comparsa di parestesie, sensazione di caldo, di freddo, formicolii, dolore pungente, dolore urente, percezioni vibratorie cutanee superficiali e profonde.

A livello motorio, il paziente può lamentare alterazioni del tono
muscolare, con riduzione della forza e della resistenza alla richiesta di contrazione di un muscolo specifico o di una catena muscolare, finanche ad arrivare ad un danno di funzione del sistema propriocettivo di controllo e coordinamento.

aracnoidite 3Possono manifestarsi delle contratture antalgiche riflesse e delle alterazione nella risposta dei R.O.T (riflessi osteo- tendinei).

Il tutto si traduce in una difficoltà nel compiere gesti banali di attività quotidiana, arrivando persino a non riuscire a mantenere un corretto assetto vertebrale nelle posture erette e sedute.

Se l’aracnoidite coinvolge non solamente le strutture
neurologiche radicolari ma anche il midollo vertebrale, si possono manifestare delle disfunzioni gravi dei sistemi viscerali di funzionamento, perdendo la funzione di equilibrio dei sistemi attivanti e di controllo neurovegetativi, comportando dei non feedback nei riflessi corti viscerali e in quelli viscero somatici.

Le cause

causeLe cause che possono portare all’aracnoidite non sono ben chiare, in alcuni casi si può affermare che l’eziologia è sconosciuta e possono variare con una multifattorialità che spazia da:

  • reazioni avverse all’introduzione erronea di farmaci per via diretta, anziché nello spazio epidurale, alla porzione più intima delle leptomeningi
  • nella somministrazione di mezzi di contrasto come nella mielografia
  • alla presenza di virus e batteri, introdotti attraverso il circolo ematico o in ambienti non perfettamente sterili durante interventi di chirurgia vertebrale
    come conseguenza di ernie discali cronicizzate e dal nucleo erniato disidratato e indurito
  • come conseguenza della stenotizzazione del canale vertebrale, soprattutto se a carico dei tessuti molli anziché osteo-articolari
    per la presenza di emorragie non tempestivamente tamponate e drenante.

Diagnosi della aracnoidite

aracnoidite anamnesiPer diagnosticare l’aracnoidite è fondamentale procedere con un’attenta anamnesi, capace di individuare la storia clinica del paziente, inquadrandola sia sotto un aspetto sintomatologico e sia nello storico di eventi patologici, di cure e somministrazioni farmacologiche effettuate e di eventuali interventi chirurgici subiti.

I test clinici saranno di grande importanza per evidenziare segni di nevrite periferica o centrale, in relazione ai movimenti indotti e richiesti ed ai riflessi condizionati stimolati.

L’elettroneurografia può essere un esame di valido supporto nel rilevare sindromi neurologiche periferiche irritative.

Nel caso si voglia valutare la presenza di ossificazioni aracnoidee, l’esame maggiormente indicato sarà la TC, perché è in grado di studiare con maggior attenzione la presenza di calcificazioni e/o addensamenti sensibili alle radiazioni.

L’RM con contrasto può essere un supporto diagnostico importante nello studio del segmento vertebrale in rapporto ai tessuti neurologici contenuti.

Come trattare l’aracnoidite

ChirurgiaIl trattamento dell’aracnoidite non ha ad oggi un protocollo terapeutico comprovato, pertanto si tende ad assistere il paziente riducendo i sintomi, recuperando ed ottimizzando le funzioni residue nelle attività di vita quotidiana, lavorando sulla propriocettività e sull’adattamento posturale.

Diventa importante studiare degli ausili che possano concorre nell’efficienza del paziente allo svolgere delle proprie attività, senza incrementare i sintomi caratteristici della patologia.

L’intervento chirurgico di disimbrigliamento del sistema nervoso coinvolto nell’aracnoidite, non sempre è possibile e qualora sia applicabile, non assicura un miglioramento stabile nel tempo.

L’aracnoidite è una patologia importante che può arrecare danni considerevoli alla salute del paziente, proprio per questo all’insorgere dei primi sintomi ci si deve rivolgere allo specialista di riferimento, per bloccare il processo infiammatorio ed edematoso.

La salute passa attraverso la conoscenza e con l!articolo di oggi abbiamo la possibilità di aggiungere un tassello al nostro benessere.

Cruralgia

La cruralgia è un dolore che si presenta nella zona cutanea anteriore / mediale della coscia e della gamba e nella zona cutanea dorsale / mediale del piede.

La cruralgia

Cruralgia 01Può causare dei deficit muscolari al compartimento anteriore della coscia, ai muscoli adduttori (m. adduttore lungo), e al muscolo ileopsoas.

La sintomatologia è dovuta all’irritazione del nervo crurale che innerva la zona cutanea e le strutture muscolari sopra indicate.

La sintomatologia può estendersi sull’intero territorio indicato, oppure in maniera tronca  su una zona specifica, a seconda della causa di irritazione e della gravità in essere della patologia.

Il nervo crurale fa parte del plesso nervoso del tratto lombare; si crea dalle unioni di più radici nervose L2-L3-L4 ed ha, come avete già capito, una funzione tanto sensitiva, quanto motoria.

Ma cosa può causare la cruralgia?

I fattori patologici sono molti, di natura diversa e possono incidere all’origine del nervo, all’uscita del nervo dalla vertebra, oppure nel tragitto lungo il suo decorso.

Cruralgia 02Esaminiamoli insieme:

  • ernia discale
  • edema
  • artrosi
  • osteofiti
  • esostosi
  • chiusura dei forami di coniugazione
  • fratture vertebrali (osteoporosi o trauma)
  • riduzione dello spazio intervertebrale
  • stenosi del canale midollare
  • infezioni batterico/virali
  • infiammazioni metaboliche
  • ipossia/anossia arteriosa del nervo
  • aderenze addominali
  • visceroptosi

I fattori citati, scatenanti la cruralgia, variano nel circolo vizioso patologico che turna tra la compressione, i punti di restrizione e irritazione nello scorrimento del nervo durante il movimento o nelle posture degli adattamenti in posizione eretta, seduta o sdraiata, nella riduzione di vascolarizzazione arteriosa, nella stasi locale della circolazione venosa.

Un discorso a parte meritano i fattori metabolici e infettivi, che scatenano un’infiammazione locale sul nervo per cause inerenti a situazioni che coinvolgono e minano la salute del paziente in maniera sistemica.

I sintomi della cruralgia sono diversi per intensità, per territorio di sviluppo, per caratteristiche motorie, sensitive o miste.

Cruralgia 03Come accennavo all’inizio dell’articolo, il dolore può manifestarsi nella zona cutanea anteriore / mediale della coscia e della gamba e nella zona cutanea dorsale / mediale del piede.

Può causare dei deficit muscolari al compartimento muscolare anteriore della coscia, ai muscoli adduttori (m.adduttore lungo), e al muscolo ileopsoas.

Il dolore

Nel caso in cui si associ anche un dolore lombare, generalmente localizzato nello stesso emilato della cruralgia e in maniera irradiata verso il decorso del nervo crurale, possiamo parlare di lombocruralgia.

Il dolore, l’intorpidimento, il formicolio, il bruciore, la debolezza o l’atrofia muscolare, la riduzione o la perdita dei riflessi osteotendinei,  possono comparire in maniera lenta e progressiva, oppure svilupparsi in maniera improvvisa, possono avere un andamento acuto oppure cronico, costante o incostante.

Le varianti sintomatiche saranno dovute alla causa che da vita alla cruralgia e possono presentarsi in maniera singola o multipla.

Cruralgia 04In basse alla gravità della sintomatologia, il paziente può associare un’alterazione della postura, che risulterà deviata per sfuggire al carico e all’accentuarsi dei sintomi sensitivi e/o motori.

Può risultare difficoltoso mantenere la posizione seduta per periodi prolungati.

Molti pazienti lamentano anche un disagio nel trovare una posizione sdraiata che permetta loro di riposare bene e senza disturbi.

Spesso l’impedimento motorio e l’esacerbazione parestetica, si acuisce nei cambi di posizione da sdraiato a seduto e da seduto a in piedi.

Possiamo quindi dire che la cruralgia, può manifestarsi tanto durante il movimento quanto in posizione statica o addirittura di riposo.

Come si diagnostica una cruralgia?

Nella diagnosi è fondamentale fare una buona anamnesi per capire la modalità di insorgenza della patologia e le possibili cause che l’abbiano sviluppata.

A seguire è necessario un esame obiettivo, dove le manovre adoperate sul paziente verificheranno la presenza delle condizioni patologiche alla stimolazione delle cause sospette.

TC ColonnaPotrà rendersi necessario accompagnare l’anamnesi e l’esame obiettivo con esami diagnostici strumentali quali:

  • rx
  • rm
  • tc
  • elettromiografia
  • ecodoppler

Queste indagini possono visualizzare e contestualizzare lo stato di salute del paziente in base allo stato anatomico vertebrale, dei propri tessuti molli, dei vasi arterio-venosi di competenza, delle strutture discali e radicolari del segmento in questione.

Fino ad analizzare lo stato di innervazione delle placche motrici del nero femorale, lungo il suo percorso di innervazione.

La terapia

La terapia può essere studiata e applicata a largo raggio.

Bisogna cercare di rimuovere la causa della patologia o di minimizzarne al massimo gli effetti patologici che ne conseguono, non perdendo di vista la riduzione in tempi brevi della sintomatologia, per evitare una reazione a catena di compensi multisistemici.

Pertanto la cruralgia potrà essere approcciata con via farmacologica, tramite antinfiammatori (fans o cortisonici), miorilassanti, antidolorifici o terapie infiltrative di ozono.

FisioterapiaA livello fisioterapico l’approccio varia da una ricorrezione posturale, ad un riequilibrio delle catene muscolari, ad un ripristino della normale fisiologia vertebro-discale, ad un disimbrigliamento del nervo sia sull’uscita della radice nervosa che lungo il suo percorso di appartenenza.

Sarà in grado anche di ridurre l’infiammazione, lo stato di contrattura muscolare e di ricondizionare la funzione neurologica di trasmissioni nocicettive e motorie.

In campo chirurgico ci sarà la necessità di intervenire nel caso sia presente un’ernia discale compressiva sulla radice nervosa, che non riesca ad essere affrontata in maniera efficace a livello farmacologico e fisioterapico.

Cosi come sarà necessario l’intervento chirurgico in caso di stenosi vertebrale, che mantenga uno stato di patologia stabilmente sintomatologico.

La cruraligia è una patologia che può inefficiare la qualità di vita e le attività quotidiane, ma fortunatamente abbiamo la possibilità di fare una diagnosi precisa e applicare una serie di terapie capaci di risolvere il problema in maniera fruttuosa e stabile.

E’ importante rivolgersi al professionista sanitario competente, che sappia capire i sintomi del paziente, che sappia fare una diagnosi precisa e accurata, per poter trovare la miglior strategia di cura nella risoluzione del problema.

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Osteonecrosi e Infarto Osseo

Osteonecrosi e Infarto Osseo 01L’infarto osseo e l’osteonecrosi sono due condizioni sequenziali strettamente correlate tra di loro, ovvero l’infarto osseo conduce all’osteonecrosi.

Ma cos’è l’infarto osseo?

E’ una condizione di forte riduzione della vascolarizzazione del tessuto osseo, che può comparire sia nella porzione di osso trasecolare, sia nella parte di giunzione periostale.

Lo stato di ipossia cellulare prolungata, o di violenta anossia, porta ad una necrosi della massa ossea (osteonecrosi), più o meno estesa a seconda dell’area coinvolta dalla lesione vascolare.

L’area ossea che ha subito la morte cellulare va successivamente incontro ad un processo di guarigione e di riparazione, il quale non sempre riesce a portare a termine il suo percorso, perché se subisce un considerevole carico statico e/o dinamico, rischia il collasso della struttura e la deformità ossea, prima che il processo ripartivo abbia portato a compimento il suo processo.

Osteonecrosi e Infarto Osseo 02Ovviamente tale discorso diventa più o meno grave a seconda dell’estensione dell’area necrotica.

Generalmente l’osteonecrosi coinvolge la parte estrema delle ossa lunghe, interessando spesso anche le cartilagini di rivestimento dei capi articolari, le quali subiranno delle deformazioni per il cedimento della porzione ossea sottostante.

Le ossa maggiormente colpite sono in ordine di percentuale:

  • il femore nella porzione prossimale della testa del femore
  • il ginocchio nella porzione prossimale della tibia e quindi del piatto tibiale
  • la testa dell’omero
  • l’articolazione del polso
  • l’articolazione della caviglia.

Nelle prime fasi della lesione vascolare, l’infarto osseo può rimanere silente, se limitato ad un porzione ossea di minute dimensioni, oppure se l’area interessata, seppur vasta, mantiene la capacità di resistere ai carichi compressivi.

Il dolore

Osteonecrosi e Infarto Osseo 03Nel momento in cui l’osso collassa e si deforma, il dolore si manifesta sia localmente, per l’interessamento della porzione periostale largamente innervata e sia per il manifestarsi di un’impotenza funzionale articolare, associata ad una reazione muscolare di tipo antalgica riflessa.

In questo caso il dolore aumenta nella posizione eretta e durante il carico dinamico, mentre diminuisce a riposo e in posizione di scarico.

Differente sarà il discorso per le articolazioni dell’arto superiore come la spalla e il gomito, dove il dolore si acuisce maggiormente durante il movimento e la presa di oggetti con la mano, soprattutto se pesanti e con il braccio lontano dal corpo.

Anche nelle posizioni supine di scarico, il dolore articolare può essere presente se la patologia ha innescato un processo secondario di sinovite periarticolare, con un gonfiore che peggiora con la riduzione del drenaggio autonomo al movimento.

Le cause

CauseLe cause dell’infarto osseo e della conseguente osteonecrosi, sono da imputare principalmente ad una condizione di anomalia vascolare specifica o multifattoriale, che possa ridurre l’apporto di sangue ossigenato e del materiale di nutrimento al tessuto irrorato.

Sono molti gli eventi, le patologie e i dismetabolismi, che possono portare a tale condizione, pertanto dividiamo in due macro categorie le eziologie necrotizzanti:

  • le osteonecrosi traumatiche, dovute ad eventi estremi, che comportano la frattura o la lussazione di quelle strutture ossee che hanno una circolazione terminale, o con una ridotto circolo anastomotico collaterale, come nella testa del femore o nell’osso scafoideo del polso; è da queste situazioni che l’evento traumatico rischia di danneggiare gravemente anche il corretto apporto vascolare osseo, sviluppando una necrosi ossea
  • le osteonecrosi non traumatiche, dovute a fattori che possono inefficace il sistema di nutrimento osseo in maniera singola o multifattoriale.

Tra le varie cause troviamo: l’abuso di alcol, l’abuso di fumo di sigaretta, l’utilizzo eccessivo e prolungato di corticosteroidi, malattie autoimmunitarie che coinvolgono il tessuto connettivo e vascolare, alterazioni patologiche della coagulazione del sangue, postumi di terapie radianti e chemioterapiche, patologie dismetaboliche epatiche, pancreatiche, renali, fino ad arrivare alle patologie da decompressioni.

L’osteonecrosi di origine non traumatica ha una percentuale di sviluppo bilaterale pari al 60%, con un’incidenza maggiore a carico del femore, nella porzione prossimale articolare dell’anca.

La diagnosi

Osteonecrosi e Infarto Osseo 04Per diagnosticare la necrosi ossea, soprattutto dopo aver subito un evento traumatico fratturativo o dislocante, oppure in tutte quei pazienti che in un quadro anamnestico, riportano condizioni cliniche e/o terapeutiche sospette all’evoluzione dell’infarto osseo, è assolutamente necessario avvalersi di indagini diagnostiche quali RX, RM, TC, capaci di individuare alterazioni areolari della matrice ossea contenute in minima quantità, oppure alterazioni sclerotiche della porzione di passaggio periostale/trabecolare, associate ad edema intraspongioso e nei casi più gravi accompagnate da un’alterazione della naturale conformazione perimetrica, come conseguenza del collasso strutturale osseo, capace di evolvere fino allo sviluppo di vere e proprie fratture.

Se la necrosi è associata a patologie autoimmunitarie del tessuto connettivo, sarà facile riscontrare un’alterazione della capsula articolare, con un aumento del contenuto liquido di tipo infiammatorio.

Il trattamento

Il trattamento dell’osteonecrosi prevede l’utilizzo di una strada conservativa e di una chirurgica.

La strada conservativa tende a diminuire il dolore, il quale se acuto e persistente, ha tra i vari effetti collaterali, quello di ridurre l’afflusso vascolare arterioso per effetto riflesso del sistema neurovegetativo.

Nelle localizzazioni associate agli arti inferiori, si tende a ridurre il carico statico e dinamico per evitare la deformazione ossea, fino alla ripresa inoltrata del processo ripartivo.

Risultano essere utili anche i percorsi fisioterapici con elettromedicali e senza, per stimolare la biologia cellulare ossea, mantenendo il trofismo muscolare capace di coadiuvare la corretta disposizione cellulare osteoblastica rigenerativa.

FarmaciOvviamente andranno eliminati o fortemente contenuti ove possibile, l’utilizzo di terapie con corticosteroidi ad ampio dosaggio e per periodi prolungati.

Anche le abitudini di vita vanno curate riducendo drasticamente l’utilizzo di alcol e del fumo di sigaretta.

A livello farmacologico la somministrazione dei bifosfonati, può accelerare il processo di guarigione.

Nel caso in cui l’osteonecrosi abbia avuto un’evoluzione importante su vasta scala e la regressione ne risulta da principio insperata, si può procedere con un trattamento chirurgico.

La chirurgia può adottare varie strade che variano dalla decompressione centrale chirurgica semplice, alla decompressione centrale con innesto osseo vascolarizzato e non.

Questa tecnica si effettua con delle incisioni o con delle perforazioni, che hanno il compito di stimolare la rigenerazione cellulare nel contesto di una riduzione della pressione intraossea.

Viene utilizzata nelle ossa lunghe quando l’area necrotizzata ha una superficie ridotta, oppure nelle ossa corte.

E’ una metodica che offre delle ottime risposte ed un rischio contenuto, ma necessita l’attenzione di mantenere uno scarico decrescente statico e/o dinamico per circa 30-45 giorni.

ChirurgiaUn’altra strada utilizzata nell’approccio chirurgico è quella di attuare un’osteotomia con innesto osseo, concettualmente simile alla precedente ma più complessa nell’esecuzione.

Viene utilizzata quando l’area osteonocretica è vasta e sulle ossa lunghe.

Anche in questo caso sarà necessario far osservare al paziente, un periodo di scarico decrescente statico e/o dinamico, che può prolungarsi fino a 180 giorni circa.

Quando il danno anatomico è particolarmente grave, tanto da aver portato ad un collasso dell’osso stesso e conseguentemente ad un cambio di morfologia della struttura ossea ed articolare, la strada con i maggiori risultati è quella della protesizzazione, ovvero della sostituzione dell’intera articolazione con una artificiale dalle caratteristiche compatibili.

In questo caso la ripresa è diversa in base al tipo di protesi utilizzata in relazione all’articolazione danneggiata.

Osteonecrosi e Infarto Osseo terapiaIn ogni caso, indipendentemente dal tipo di intervento programmato, sarà necessario osservare un periodo di riabilitazione mirato alla riduzione del dolore, dell’eventuale edema post chirurgico, al ricondizionamento della cicatrice associata ad eventuali aderenze e al recupero dell’articolarità.

Osteonecrosi e Infarto Osseo esrciziIn seconda battuta sarà necessario ottimizzare il tono-trofismo articolare e il recupero della propriocettività posizionale e dinamica.

L’infarto osseo e la conseguente osteonecrosi, è una condizione patologica subdola che sintomaticamente può manifestarsi anche a distanza di mesi dall’evento scatenate.

È una condizione che può portare ad un precipitare di conseguenze causa/effetto altamente destabilizzanti e disabilitanti, pertanto è assolutamente consigliato procedere con attenzione, affidandosi allo specialista del caso.

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Artrocentesi

Artrocentesi 01L’artrocentesi è una procedura medica che adopera il prelievo del liquido contenuto all’interno dell’articolazione.

Il liquido intrarticolare è il liquido sinoviale, il quale viene contenuto tra i capi articolari, racchiuso all’interno della capsula articolare stessa.

Questo liquido può andare incontro ad un aumento di volume e subire delle contaminazioni che ne alterano le qualità biologiche.

L’artrocentesi si utilizza sia a scopo terapeutico che diagnostico.

Generalmente viene applicata nelle grandi articolazioni periferiche come spalla, gomito, anca, ginocchio e caviglia, ma può essere eseguita anche nelle articolazioni più piccole, come le articolazioni delle mani, del piede e addirittura nella cavità temporo mandibolare; in molti casi viene supportata da un’ecografia che studia dapprima lo stato in essere articolare per valutarne la presenza di gonfiore e allo stesso tempo può aiutare l’operatore guidandolo nell’attuazione della tecnica, nel penetrare all’interno dell’articolazione con l’ago per l’aspirazione.

Artrocentesi 02Nella diagnosi, il liquido intrarticolare prelevato, viene studiato attraverso gli esami di laboratorio, per valutare la presenza o meno di agenti patogeni infettivi di tipo batterico o virale, di fattori infiammatori autoimmunitari o metabolici, l’eventuale presenza di componenti ematiche quali globuli rossi e/o bianchi, di cristalli di calcio, di urato e di materiale organico appartenete all’articolazione.

Gli esami di laboratorio raggruppati in questo maniera, sviluppano la diagnosi su classi differenti:

  • traumatiche
  • degenerative
  • autoimmunitarie
  • metaboliche
  • infettive.

Artrocentesi 03Nel contesto terapeutico, l’artrocentesi ha il vantaggio di ridurre le pressioni intrarticolari, le quali sono causa di dolore articolare, di riduzione della mobilità, dell’instaurasi di contratture antalgiche riflesse e di conseguenza del manifestarsi di una condizione di impotenza funzionale.

Nel caso in cui il liquido sinoviale sia contaminato da agenti patogeni, e/o da microcristalli e/o da sangue e/o da materiale organico, l’artrocentesi può limitare i danni che tali fattori infliggerebbero all’articolazione in quanto tale.

Durante l’esecuzione dell’artrocentesi, l’operatore può associare l’infiltrazione di una terapia farmacologica di vario genere e natura, come la somministrazione di antinfiammatori non steroidei, oppure di cortisone, di acido ialuronico, l’utilizzo di antibiotici, oppure di un semplice lavaggio articolare.

L’artrocentesi è una metodica sicura ma non priva di rischi.

ferri chirurgiciIl rischio più grande è quello di veicolare infezioni all’interno dell’articolazione stessa, pertanto sarà assolutamente necessario procedere all’esame in un ambiente sterile (quadrato sterile), utilizzando tutte le norme di sicurezza nell’adoperare gli strumenti dedicati, nella maniera congrua.

Prima di procedere con l’artrocentesi l’area di accesso del paziente va pulita e disinfettata, abbattendo le cariche batteriche naturalmente presenti sulla cute.

Alla fine dell’intervento ed estratto l’ago, il paziente andrà medicato con disinfettanti ed il punto di accesso dell’ago coperto con garze sterili.

L’artrocentesi è una procedura medica molto utile e dagli effetti diagnostici e terapeutici estremamente validi, non è sicuramente un esame di routine, ma si può dimostrare estremamente efficace qualora se ne presenti la necessità.

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Liquido sinoviale

Liquido sinoviale 01Il liquido sinoviale ha la funzione di lubrificare e proteggere le articolazioni dallo sfregamento dei capi osteo-cartilaginei che le compongono.

In maniera molto semplice potremmo dire che il liquido sinoviale ha il compito di lubrificare e di nutrire le cartilagini articolari.

Non è assolutamente da omettere però che tale liquido è anche presente nelle borse mucose di scorrimento, interposte nelle zone di maggior attrito periarticolari, facendo da cuscinetto a quei tessuti molli, prevalentemente muscolo-tendinei, che sono particolarmente stressati nel movimento, nelle trazioni e nelle compressioni.

Il liquido sinoviale è l’insieme di diversi componenti:

  • acido ialuronico
  • lubricina
  • immunoglobuline
  • proteine ematiche
  • glucosio
  • elettroliti.

Liquido sinoviale 02Una parte consistente è prodotta dalla membrana sinoviale, tessuto di rivestimento interno della capsula articolare, formato da connettivo lasso, che vede la presenza di vasi vascolo-linfatici nella sua matrice tessutale, necessari sia per la produzione di liquido sinoviale e sia per il riassorbimento di versamenti (edemi) intrarticolari.

La restante parte è prodotta dai sinoviciti, cellule specializzate presenti nella membrana sinoviale, di tipo B per la sintesi di alcune componenti del liquido, mentre quelle di tipo A, hanno il compito di fagocitare elementi estranei alla naturale composizione del liquido sinoviale.

Il liquido sinoviale è contenuto in uno spazio virtuale che si interpone tra i capi osteo-articolari e la capsula articolare, in un quantitativo di pochi ml; si valuta che nel ginocchio, l’articolazione diartroica più grande che abbia il corpo umano, ce ne sia presente un quantitativo di 3-4 ml.

Liquido sinoviale 03Può subire delle variazioni nella propria caratteristica biochimica e nel quantitativo prodotto; le variazioni sono influenzate sia dall’interazione immunitaria, sia da eventi traumatici, sia dal metabolismo del pannicolo sinoviale e sia dallo stato di salute dell’articolazione.

  • interazione immunitaria:

L’articolazione può andare incontro ad un’infiammazione di tipo autoimmunitaria, per la presenza di patologie come l’artrite reumatoide, l’artrite psoriasica e simili, che causano un gonfiore dell’articolazione con un’iperproduzione di liquido sinoviale su base reattiva infiammatoria, come anche per un’attacco di agenti patogeni batterici o virali, che si affacciano per via ematica, fino al comparto interno dell’articolazione.

  • alterazioni metaboliche del pannicolo sinoviale:

Ci sono delle condizioni di dismetabolismo, che possono portare alla presenza di precipitati organici captati dalle zone articolari; uno dei dismetabolismi più noti è la gotta, la quale si caratterizza per l’accumulo di acidi urici nelle articolazioni (come ad esempio l’articolazione dell’alluce), causando una reazione infiammatoria e un’iperproduzione di liquido intrarticolare

  • eventi traumatici:

Traumi articolari come ad esempio le distorsioni, portano ad un’elongazione oltre limite dei tessuti capsulo-legamentosi, causando un’infiammazione di tipo lesiva e un’iperproduzione di liquido come reazione del normale processo infiammatorio.

  • stato di salute articolare:

La rigidità articolare, la riduzione del rom articolare, la fibrotizzazione delle capsule articolari, l’invecchiamento dei tessuti molli sinoviali, l’artrosi, diminuiscono lo stimolo alla produzione di liquido sinoviale, sia per una riduzione funzionale vascolare, sia per quello cellulare metabolico dei sinoviciti.

In questo caso avremo meno produzione di liquido sinoviale intrarticolare.

Nei casi ci sia un’alterazione di iperproduzione come nelle prime 3 categorie sopra citate, bisognerà trovarne la causa (batterica, virale, autoimmunitaria, dismetabolica o traumatica) e disinnescarla, per mezzo di rimedi naturali quali ghiaccio e riposo, oppure attraverso l’uso di farmaci antinfiammatori steroidei o FANS, fino a poter arrivare all’artrocentesi e all’analisi del liquido sinoviale.

Nel caso invece di un’alterazione da ipoproduzione, sarà necessario ottimizzare la funzione articolare dei tessuti molli associati, recuperandola ove sia possibile in maniera stabile; nelle situazioni dove questo non sia possibile o insufficiente, si può ricorrere alle infiltrazioni inarticolati di acido ialuronico, recuperando il rapporto di fabbisogno di uno dei fattori primari del liquido sinoviale stesso.

Come abbiamo capito in questo articolo il liquido sinoviale ha l’importantissimo compito di nutrire, di lubrificare le articolazioni e le borse sierose periarticolari; il suo rapporto di produzione/riassorbimento deve essere in equilibrio per garantite uno stato di salute articolare.

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Carbossiterapia nel contesto della salute

La  carbossiterapia è una tecnica utilizzata nel campo medico sin dal 1932, che sfrutta la somministrazione di anidride carbonica a livello gassoso per via sottocutanea, con l’intento primario di far fronte alle arteriopatie in un  percorso di recupero funzionale.

Carbossiterapia 01 Carbossiterapia e flusso ematico

La carbossiterapia per effetto dell’inoculazione dell’anidride carbonica, riesce ad incrementare il flusso ematico locale, aumentando la contrattilità e di conseguenza il rilascio, della tonaca muscolare delle pareti arteriose in quanto tali e delle porzioni arteriose precapillari (metarteriole), incrementando la spinta ematica della circolazione e della microcircolazione locale, il tutto ottimizzato anche dall’effetto dell’anidride carbonica sul rilassamento delle cellule muscolari lisce negli sfinteri precapillari.

La carbossiterapia viene somministrata con infiltrazioni sottocutanee, tramite aghi molto sottili, collegati con dei tubicini, ad un apparecchio dotato di un  serbatoio che eroga gas di anidride carbonica, regolandone la somministrazione nella quantità e nella velocità, per mezzo di un flussometro.

Carbossiterapia 02Altro effetto importante dell’inoculazione di anidride carbonica è la risposta dell’emoglobina nel rilascio di molecole di ossigeno, come reazione ad un aumento dell’acidità del ph, conseguente all’incremento della concentrazione di anidride carbonica nel tessuto perilocale.

Gli effetti a cascata portano come ulteriore riflesso fisiologico, la stimolazione della lipasi intradipocitaria e quindi della lipolisi.

Nel contesto degli effetti fisiologici fin qui illustrati la carbossiterapia riesce ad affrontare differenti situazioni.

Campi di applicazione della carbossiterapia

Lasciando da parte il capitolo della medicina estetica, argomento non contemplato nel contesto dei miei articoli sanitari, i suoi effetti trovano importanti benefici nelle:


Carbossiterapia 03

  • patologie vascolari arterio-venose con specificità maggiore nell’affrontare i problemi del microcircolo
  • nella sindrome di Raynaud
  • nelle patologie dermatologiche che necessitano di riparazione e rigenerazione cellulare come ad esempio nelle ulcere cutanee, piaghe e simili
  • nel trattamento dei cheloidi e delle aderenze pericicatriziali.

La carbossiterapia deve essere effettuata con dei cicli che possono variare nel numero delle somministrazioni, in relazione all’importanza della patologia e alla cronicità che la caratterizza, con una media che si aggira da un numero di 3 a un numero di 20 sedute circa.

Sempre nel contesto della gestione della cronicità patologica, i cicli terapeutici devono essere ripetuti a distanza di tempo, con una indicazione stabilita nel contesto dello stato di salute del paziente.

La carbossiterapia è da sempre considerata una terapia sicura, dai pochi e minimi effetti collaterali nel periodo annesso alla somministrazione (edemi della zona trattata, perturbazione della sensibilità locale).

Controindicazioni

anamnesiMa parlando di controindicazioni, ci sono delle situazioni limite dove la carbossiterapia non è consigliata?

Dato che l’anidride carbonica iniettata viene eliminata dall’organismo attraverso gli organi emuntori e gli organi metabolizzanti, va salvaguardato il paziente che soffre di alcune patologie primarie quali:

  • insufficienza renale
  • insufficienza epatica
  • insufficienza respiratoria
  • insufficienza cardiaca
  • anemia
  • diabete.

Altro aspetto da tener presente è la gravidanza, dove la somministrazione di anidride carbonica è sconsigliata nell’ottica di tutelare un equilibrio biologico fetale.

Abbiamo imparato che la carbossiterapia può essere un valido aiuto nella gestione della salute su aspetti mirati alla vascolarizzazione del microcircolo e alla lipolisi.

Abbiamo imparato anche che è una terapia sufficientemente sicura, ma che può nascondere delle insidie se ci sono delle patologie primarie associate, motivo per cui bisogna essere accorti e farsi indirizzare da un professionista sanitario dedicato.

La salute passa attraverso la conoscenza e con l’articolo di oggi abbiamo la possibilità di aggiungere un tassello al nostro benessere.