Stipsi o stitichezza

Stipsi o stitichezzaCon il termine stipsi o stitichezza, si definisce una difficoltà nell’evacuazione delle feci, sottolineandone la frequenza in un numero inferiore a 3 nell’arco della settimana.

Classificazione

Va subito detto che esistono 2 tipi di stipsi, la più comune è quella data dal rallentamento del transito intestinale, mentre l’altra è causata dall’incapacità parziale o totale di evacuare.

La prima è chiamata stipsi da propulsione, mentre la seconda è detta stipsi da espulsione.

Parlando di stitichezza non possiamo relegare questa definizione solamente al numero degli svuotamenti intestinali e quindi dell’ampolla rettale nell’arco della settimana, ma dobbiamo porre l’attenzione anche allo sforzo necessario per ottenere lo svuotamento, alla sensazione di incompleta liberazione e alla consistenza delle feci, generalmente dure e frammentate (caprine).

Non dobbiamo farci ingannare dalle alterazioni occasionali della frequenza intestinale, può succedere infatti che il cambiamento delle proprie abitudini, del luogo (ad esempio in un posto di vacanza), dell’alimentazione o della salute psico-fisica, possa causare una modificazione della regolarità intestinale.

Non dobbiamo neanche farci ingannare dalle avvisaglie di blandi dolori nella pre-evacuazione e/o nel post-evacuazione, così come dalla necessità di compiere piccoli sforzi per svuotare l’ampolla rettale…….queste situazioni rientrano in un quadro di normalità, finché non eccedono in maniera esponenziale nei loro segni e nei loro sintomi.

Stipsi o stitichezzaIl paziente stitico è tale nel momento in cui la sua difficolta nell’evacuazione è costante, sia nella prassi della vita quotidiana, sia nei cambiamenti saltuari.

I sintomi della stipsi o stitichezza

I sintomi della stipsi aggiunti all’incapacità nell’evacuazione e alla netta riduzione della sua frequenza, si caratterizzano per una digestione lenta e difficoltosa, per una sensazione di gonfiore addominale e di pesantezza, che può sfogare addirittura in crampi e dolori addominali.

Il paziente può lamentare dolori da sforzo e dolori anali durante l’evacuazione, con una difficoltà nello svuotare completamente l’ampolla rettale.

La stipsi può generalizzare il quadro sintomatologico, fino ad arrivare ad una condizione di malessere generale.

Le cause

Le cause della stipsi sono veramente molte pertanto è necessario inquadrare  gli aspetti che generano il problema a tutto tondo…….vediamoli insieme.

Nelle prime congetture eziologiche, si può pensare alla diminuzione del transito intestinale, sia per aspetti meccanici, come la riduzione del lume intestinale, o per la presenza di un dolicocolon, o per dei cattivi rapporti anatomici come in un addome ptosico, dove addirittura può cambiare il corretto assetto delle valvole intestinali, tra cui la primaria in questo caso è la valvola ileocecale.

Stipsi o stitichezzaAltra causa importante da considerare è l’alterazione dell’equilibrio orto e parasimpatico del sistema nervoso autonomo e il tilt del sistema nervoso enterico, il quale può deficitare della sinergia dei neurotrasmettitori, in particolar modo della serotonina, deputata anche al funzionamento della muscolatura del colon.

Il sistema di drenaggio addominale, sia vascolare che linfatico, può mettere il paziente nella condizione di sviluppare una stipsi, perché è deputato al riassorbimento dei liquidi del bolo fecale nel colon e quindi compartecipante alla consistenza delle feci stesse.

Non va dimenticato l’importanza dell’alimentazione che deve essere equilibrata nell’assunzione di fibre e di liquidi, rispetto alla proporzione nell’ingerenza del resto dell’approvvigionamento di carboidrati e proteine, così come dev’essere in equilibrio nell’assunzione dei pasti durante la giornata, evitando di alternare grosse pause di digiuno a pasti regolari.

Il fattore emotivo e il ciclo sonno-veglia, possono essere delle concause nell’alterazione della funzionalità intestinale, per cui uno stato di stress, o una riduzione del fisiologico riposo, possono causare un’alterazione dell’equilibrio neurovegetativo, andando a causarne una stipsi.

Per la regolarità intestinale è fondamentale l’attività fisica e il movimento in generale, perché sono in grado di favorire il transito intestinale anche in maniera indiretta; non sono pochi i casi in cui il paziente allettato, si ritrova a dover far fronte a periodi associati di stitichezza.

Il coordinamento sinergico della muscolatura diaframmatica, addominale e del pavimento pelvico, è importante per garantire una mobilità del transito intestinale indotto e un corretto svuotamento dell’ampolla rettale.

Anche la presenza di virus e batteri intestinali, possono alterare la regolarità del transito intestinale, alternando periodi di diarrea a periodi di stipsi.

Spesso i pazienti che soffrono di stitichezza ricorrono all’utilizzo di farmaci o di composti naturali, che stimolano lo svuotamento intestinale, ma nel lungo periodo, l’utilizzo costante di questi rimedi, può creare una dipendenza sia organica che psicologica, portando il paziente all’incapacità di assolvere autonomamente a questa necessità.

Non va assolutamente dimenticato che alcuni tipi di farmaci, assunti per altri motivi di salute, possono avere come controindicazione la riduzione della motilità intestinale e favorire la stipsi.

Gli antidepressivi, i neurolettici, i farmaci a base di morfina ed altri ancora, concorrono a determinare un rallentamento della funzionalità intestinale.

La diagnosi della stipsi o stitichezza

anamnesiPer effettuare una diagnosi di stipsi è necessario eseguire un’attenta anamnesi, dove verranno indagate la frequenza della defecazione, la dolorabilità nell’evacuazione, la presenza di gonfiore addominale, lo studio dell’alimentazione e le abitudini del paziente nel perseguire un’attività fisica giornaliera, cosi come la regolarità del ciclo sonno-veglia.

Bisogna indagare lo stato psico-emotivo, lo stato di benessere generale e l’eventuale presenza di affezioni batterico-virali.

L’esame obiettivo sarà mirato in primis alla palpazione dell’addome, monitorandone un’eventuale stato di rigidità e di dolenzia, per poi sincerarsi della capacità del soggetto alla corretta funzionalità della muscolatura diaframmatica, addominale e del pavimento pelvico.

Gli accertamenti strumentali possono aiutare nella diagnosi, attraverso molteplici esami:

  • studio radiografico della motilità intestinale attraverso l’assunzione di marcatori radiopachi
  • manometria ano-rettale (un catetere sonda che stimola la parete del retto, valutandone la contrazione delle pareti)
  • cinedefecografia (studio radiografico con mezzo di contrasto dell’ampolla rettale durante la defecazione)
  • colonscopia ed esame bioptico, per valutare sia il lume intestinale, che lo stato di salute delle sue pareti.

Nella biopsia può essere anche prelevato e studiato un campione delle fibre neurologiche che trasmettono l’impulso di motilità e contrazione del colon-retto.

  • analisi delle feci mirate a valutare l’eventuale presenza di sangue, di virus o di batteri.

Come trattare la stipsi o stitichezza

Stipsi o stitichezzaIl trattamento della stipsi diventa un’attività terapeutica vera e propria solamente nel caso in cui la stitichezza sia cronica e conclamata.

Il primo approccio alla problematica è quello di modificare le abitudini alimentari, aumentando l’apporto di liquidi fino a 2/3 litri al giorno e l’apporto di fibre naturali, che possono essere aumentate con integratori di fibre idrosolubili e probiotici.

Va assolutamente ricordato e raccomandato di non aumentare la quantità di fibre, se non viene integrata l’assunzione di liquidi, altrimenti si può ottenere l’effetto contrario a quello desiderato.

Insieme alla correzione della dieta alimentare è assolutamente necessario incrementare l’attività fisica, volta ad aumentare il metabolismo e a rafforzare la tonicità, almeno della parete addominale e della zona pelvica.

Non sono rare le indicazioni di ginnastiche propriocettive del pavimento pelvico, per allenare il paziente nella spinta necessaria allo svuotamento dell’ampolla rettale.

Stipsi o stitichezzaLa fisioterapia e l’osteopatia, possono aiutare il paziente intervenendo con delle manovre mirate a favorire il transito addominale e ad ottimizzare le pressioni addomino-pelviche, così come possono essere favorevoli nella gestione della ptosi viscerale e di quello che ne consegue, sia sulla valvola ileocecale, che sugli angoli colici, cosi come nel tratto distale del sigma-retto.

Inutile dire che va assolutamente cercato di tenere sotto controllo l’equilibrio psico-fisico e il ciclo sonno veglia, evitando il più possibile forti periodi di stress e carenze di sonno prolungate.

E’ importante aiutare il paziente nella gestione dei farmaci, cercando di evitare l’uso costante dei lassativi, per scongiurare l’induzione del silenzio intestinale al naturale stimolo della defecazione.

Per quanto riguarda invece l’utilizzo dei farmaci che hanno come controindicazione le manifestazioni di stitichezza, va stimolato il paziente ad ottimizzare tanto l’alimentazione quanto l’introduzione di una regolare attività fisica.

Nei casi ostinati di stipsi si può ricorrere all’utilizzo di farmaci che aiutino ad aumentare la motilità intestinale, ma sempre coadiuvati dalle strategie fino a qui illustrate.

La stipsi è un problema che affligge una grossa fetta della popolazione e in una percentuale maggiore la sfera femminile, creando disagio nella vita quotidiana, fino ad arrivare ad un malessere generalizzato.

Conoscere la stitichezza nelle sue innumerevoli sfaccettature, ci consente di affrontarla meglio e con più successo.

La salute passa attraverso la conoscenza e con l’articolo di oggi abbiamo la possibilità di aggiungere un tassello al nostro benessere.

Discopatia

Con il termine discopatia si indica in maniera aspecifica, un’alterazione degenerativa del disco intervertebrale.

Anatomia

Il disco intervertebrale è un’ammortizzatore naturale a forma di cuscinetto discoide, posto tra una vertebra e l’altra, che ha il compito di accompagnare il movimento della colonna vertebrale e allo stesso tempo di mitigare i carichi generati dalla forza di gravità, da una parte del peso corporeo, dai sovraccarichi esterni (come ad esempio borse, zaini etc.), dal modificarsi delle leve e dal cambiamento delle curve vertebrali.

Il disco intervertebrale è costituito da tessuto fibrocartilagineo ed è diviso in due macro strutture:

  • il nucleo polposo che ha una forma sferica ed ha un contenuto gelatinoso composto per circa l’80% di acqua e mucopolissacaridi.

Il nucleo polposo ha il compito di ammortizzare e dissipare i carichi vertebrali adattandosi alle forze compressive nei movimenti dinamici vertebrali e nell’adattamento posturale statico

  • l’anulus fibroso che è costituito da fibre proteiche con alta percentuale di collagene 1/2 e di condrociti.

È composto da anelli concentrici che si dispongono attorno al nucleo polposo con una disposizione crociata del tessuto.

L’anulus fibroso ha il compito di assecondare le traslazioni del nucleo, di assorbire e assecondare lo scarico vertebrale sul nucleo polposo e di contenere il movimento vertebrale insieme al compartimento capsulo-legamentoso.

Discopatia 02I dischi intervertebrali sviluppano un’altezza media pari a circa il 25% dell’altezza complessiva della colonna vertebrale, ma questo dato è variabile il base alla disidratazione, ovvero alla perdita di liquidi nel complesso discale durante l’arco della giornata e alla capacità di reidratazione degli stessi per effetto osmotico nel momento in cui la colonna è in posizione di scarico.

Va assolutamente detto che i dischi intervertebrali nel tempo perdono qualità viscoelastiche e la capacità di reidratarsi, sia per un processo di naturale invecchiamento, sia per la ripetizione di microtraumi, sovraccarichi e disfunzioni vertebrali.

Pertanto la discopatia è una condizione il più delle volte inevitabile nel proseguo dell’invecchiamento della persona, ma non è assolutamente detto che debba causare sintomatologia dolorose, mentre può essere una condizione predisponente a patologie vertebrali di varia natura.

Discopatia e…

Come dicevamo il termine discopatia è generico nella sua definizione ma con esso si può preannunciare una serie di problemi del disco ben identificabili……vediamoli insieme.

Discopatia 03Con il termine discopatia si può associare:

  • disidratazione discale con perdita di altezza del muro verticale
  • bulging discale
  • fissurazione discale
  • protusione discale
  • ernia discale
  • discite

Ognuna di queste condizioni può creare un’affezione patologica che difficilmente sarà isolata, ma si assocerà ad alterazione di tipo osteo-articolare, radicolare, neurologica, vascolare, muscolare, dando vita a quadri anatomopatologici ben più complessi.

Quindi che sintomi si possono associare ad una discopatia?

Un problema isolato discale può darmi una sintomatologia?

Il disco intervertebrale ha un’ innervazione sensitiva nelle porzioni più esterne dell’anulus fibroso, con una particolare attività nella zona postero laterale.

Discopatia 04Questa innervazione consente di recepire il dolore nel momento in cui la porzione anatomica sopra indicata dell’anulus fibroso, sia messa sotto stress meccanico-compressivo in maniera costante, o subisca un processo flogistico-infettivo come nella discite.

La discopatia può inoltre generare dolore in varie situazioni:

  • riduzione del lume di passaggio del forame di coniugazione, con impegno dell’uscita del nervo, nell’intersegmento tra una vertebra e l’altra e del suo pacchetto vascolare arterio-venoso
  • sovraccarico dei corpi vertebrali con possibilità di incorrere in un processo algodistrofico vertebrale di tipo MODIC
  • nevrite di passaggio tipo lombosciatalgia o cervicobrachialgia, per irritazione compressiva da erniazione del nucleo polposo
  • stenosi del canale vertebrale per erniazione del nucleo polposo con riduzione del lume del canale vertebrale
  • irritazione del compartimento articolare, per perdita della sinergia tra la biomeccanica vertebrale e l’accomodamento discale
  • contrattura muscolare come risultato di un riflesso antalgico nelle situazioni sopra annoverate.

Discopatia 05I dolori che si possono presentare in tutte queste situazioni, sono dolori che possono variare da una topografia localizzata, puntiforme o a fascia, fino ad irradiarsi sul dermatomero rispondente alla radice nervosa eventualmente coinvolta.

Nel caso il paziente soffra di sintomi legati alla stenotizzazione, potranno manifestarsi crampi muscolari associati a riduzione della forza e della resistenza durante le attività fisiche.

Come precedentemente scritto, le cause della discopatia sono da imputare al fatto che i dischi intervertebrali nel tempo, possano perdere qualità viscoelastiche e la capacità di reidratarsi, sia per un processo di invecchiamento, sia per la ripetizione di microtraumi, sovraccarichi e disfunzioni vertebrali.

Discopatia 06I dischi intervertebrali, hanno un ruolo importante nella biomeccanica vertebrale, perché non solo ammortizzano i carichi naturali e i sovraccarichi esterni, ma diventano dei veri e propri fulcri di movimento sia nei gesti singoli ,che in quelli combinati nei 3 piani dello spazio.

La cattiva sinergia vertebrale con un’alterazione delle curve di cifosi e lordosi, associata ad un’alterato rapporto di congruità tra il corpo vertebrale e le faccette articolari, è una delle cause primarie di degenerazione discale precoce e quindi di discopatia.

Come si fa una diagnosi di discopatia?

L’esame obiettivo è fondamentale per indagare sia la corretta mobilità vertebrale, che il giusto accomodamento delle curve vertebrali.

Sono molto importanti anche i test clinici che servono a far emergere segni d’impotenza funzionale e dolorabilità, a seconda delle condizioni patologiche che si associano alla dicopatia.

Fondamentali sono le indagini diagnostiche strumentali quali RX ed RM, in grado di dare un chiaro quadro dello stato anatomico in essere.

L’RX permettere di monitorare lo spazio interdiscale e le alterazioni sia delle curve vertebrali, che delle porzioni articolari, mentre l’RM consentirà di indagare nello specifico lo stato in essere del disco intervertebrale, sia nella sua forma, sia nella sua idratazione, sia nello stato di integrità dell’anulus fibroso, sia nella dislocazione del nucleo polposo, sia nel rapporto discale in merito al forame di coniugazione, alla radice nervosa e al canale vertebrale.

Come si approccia una discopatia a livello terapeutico?

Va subito detto che il disco intervertebrale è una struttura anatomica che non può rigenerarsi, pertanto la discopatia va gestita, sia per evitare che possa essere la concausa di patologie associate, sia per evitare che possa peggiorare con il passare del tempo e creare un’instabilità vertebrale.

L’utilizzo di farmaci hanno l’intento di diminuire lo stato infiammatorio e le contratture antalgiche associate, rompendo il circolo vizioso dell’impotenza funzionale.

Valido può risultare anche l’utilizzo ad intermittenza, poche ore nell’arco della giornata, di busti, collari cervicali e correggi postura, in maniera da scaricare le forze compressive, mettendo a riposo i dischi intervertebrali stessi.

La fisioterapia, l’osteopatia e la stessa attività fisica, hanno il compito di migliora l’assetto vertebrale, sia nell’unità vertebrale (vertebra-disco-vertebra), che tra le curve di cifosi e lordosi, così come hanno il compito di ottimizzare il movimento vertebrale nei 3 piani dello spazio e ridurre le fibrosità capsulo-legamentose; non va dimenticato che è di grande importanza ricercare un equilibrio muscolare tra catene agoniste e antagoniste, migliorandone anche i rapporti neurologici di feedback tra i meccanocettori associati.

Abbiamo quindi capito che la discopatia è una condizione di invecchiamento e degenerazione imprescindibile, legata all’invecchiamento biologico della persona, ma che può subire un’accelerazione gravemente patologica, per tutta una quella serie di concause di cui abbiamo parlato, pertanto non dobbiamo assolutamente trascurare la condizione di equilibrio dell’intera colonna vertebrale e ottimizzarne sempre la sua funzionalità, limitando, ove fosse possibile, l’aumento di peso corporeo e di carichi esterni elevati.

La salute passa attraverso la conoscenza e con l’articolo di oggi abbiamo la possibilità di aggiungere un tassello al nostro benessere.

Sindrome di Baastrup

Cos’è la sindrome di Baastrup?

SINDROME DI BAASTRUP 01La sindrome di BAASTRUP è un’affezione ortopedica a carico delle apofisi spinose vertebrali, generalmente con interessamento degli ultimi segmenti L3-L4-L5.

Si riscontra nel paziente un aumento morfologico di queste porzioni ossee, le quali subiscono un sovraccarico sia posizionale che biomeccanico.

Le apofisi spinose tendono ad avvicinarsi troppo tra di loro al punto tale di toccarsi e sfregare durante il movimento di estensione dorsale o addirittura nell’atteggiamento di lordosi statica.

Le apofisi spinse sono il segmento maggiormente posteriore della vertebra ed hanno il compito di fornire un aggancio sia a strutture legamentose e sia a componenti muscolari, per stabilizzare e guidare il movimento della colonna.

SINDROME DI BAASTRUP 02

La condizione ortopedica normalmente non riscontra ulteriori dimorfismi discali o dei forami intervertebrali se la sindrome è di tipo primaria, mentre nelle condizioni secondarie si può combinare ad anterolistesi e/o degenerazioni discali, con diminuzione dei volumi verticali.

Nello sviluppo in fase di accrescimento, qualora siano presenti delle megapofisi spinose, si possono creare delle vere e proprie articolazioni tra una spinosa e l’altra, con addirittura la formazione di pseudocartilagini e di sierose.

Nei casi più gravi di sindrome di Baastrup sviluppatesi nel tempo, si può assistere alla comparsa di pseudo-articolazioni e lo sviluppo di borse sierose o borse mucose perilocali, come effetto adattativo compensatorio anatomopatologico, di un contatto ed uno sfregamento del tutto anomalo.

Generalmente questa patologia si riscontra nei soggetti anziani, ma non può essere esclusa in quei pazienti che per lavoro, attività ludiche o sportive, stressano la colonna vertebrale in iperestensione posteriore. 

Sintomatologia

SintomiLa sindrome di Baastrup è asintomatica nelle fasi iniziali, per poi arrecare dolore puntiforme nella zona di contatto delle apofisi spinose interessate dall’impingment, creando un’irritazione delle corticali ossee, oppure una borsite delle sierose, che si sono venute a formare come condizione anatomopatologica precedente indicata.

Il dolore può cambiare da puntiforme a fascia con irradiazione perilocale, nei casi in cui siamo coinvolte più strutture recettoriali nella zona limitrofa alle apofisi spinose embricate.

Generalmente si associa una contrattura antalgica riflessa che limita il movimento vertebrale, creando una sensazione di impotenza funzionale e di rigidità.

Durane la fase acuta, il impaziente tende ad assumere una posizione di verticalizzazione o addirittura di cifosi lombare, per sfuggire al contatto posteriore vertebrale e diminuirne l’irritazione.

Se la patologia persiste nel tempo si può instaurare una condizione di sarcopenia, con la perdita parziale di fibre muscolari sostituite da tessuto adiposo.

Nei casi più gravi il paziente può incorrere nella frattura spontanea delle apofisi spinose coinvolte.

La sintomatologia descritta può manifestarsi in maniera saltuaria, per poi essere quasi costante od onnipresente, nell’evolversi e nel protrarsi della condizione patologica.

Le cause della sindrome di Baastrup

SINDROME DI BAASTRUP 03Come indicato precedentemente la condizione di sviluppo della sindrome di Baastrup parte da una crescita anomala di megapofisi spinose, perlopiù del segmento lombare inferiore.

L’iperplasia delle spinose, se associate alla condizione di lordosi lombare, come il normale adattamento posturale vorrebbe, o peggio ancora nelle condizioni di iperlordosi e se sovraccaricate da movimenti ripetuti in estensione dorsale o da sovraccarichi vertebrali, produce uno sfregamento anomale delle corticali ossee interessate, dando il via alla manifestazione di segni e sintomi quali quelli precedentemente descritti.

L’avanzare dell’età è una forte condizione predisponente, così come tutti quei cambiamenti di morfologia della curva lombare con accentuazione dei gradi di concavità posteriore.

Diagnosi

SINDROME DI BAASTRUP 04La diagnostica per immagini è sicuramente la strada più veloce e più sicura per diagnosticare la sindrome di Baastrup, perché sia attraverso l’RX, la RM e la TC, è possibile valutare la morfologia delle apofisi spinose e la presenza di un contatto anomale tra di esse.

l’RX DINAMICA ha l’ulteriore vantaggio di stabilire l’embricazione tra i segmenti posteriori vertebrali nel movimento di estensione della colonna, così come ha la capacità di monitorare il distanziamento delle apofisi durante il movimento di flessione anteriore, su una colonna elastica o su una colonna rigida.

L’esame RM ha il merito di valutare nei dettagli la presenza di sarcopenia o lo stato di infiammazione e degenerazione dei tessuti perivertebrali posteriori.

L’esame TC ha la capacità di individuare in maniera minuziosa lo stato di salute ossea e la presenza di esiti fratturativi anche minimi.

Il tutto chiaramente va associato ad un esame obiettivo che mira a valutare l’esacerbazione del dolore, la rigidità nel movimento vertebrale e lo stato di contrattura muscolare.

Il trattamento della sindrome di baastrup

farmaciLa terapia che si prevede nella sindrome di Baastrup è inizialmente di tipo farmacologica, utilizzando composti con capacità di ridurre l’infiammazione come i fans e i miorilassanti che hanno lo scopo di attenuare lo stato di contrattura muscolare.

Nel caso in cui il dolore abbia ormai assunto uno stato di cronicità con andamento permanente, si opterà per l’utilizzo di antidolorifici o di blocchi neurologici periferici locali.

A livello chirurgico si potrà optare per una rimozione dell’esostosi nelle porzioni marginali delle apofisi spinose coinvolte nella sindrome.

La fisioterapia ha il ruolo di elasticizzare la colonna vertebrale e di creare quei compensi biomeccanici capaci di ottimizzare i carichi delle linee d forza sia nella statica che nella dinamica, svincolando la colonna lombare stessa.

La salute passa attraverso la conoscenza e con l’articolo di oggi abbiamo la possibilità di aggiungere un tassello al nostro benessere.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La zoppia nel segno del Trendelenburg

zoppia trentelenburgLa zoppia nel segno del TRENDELENBURG, è un’indicazione clinica riferita ad una zoppia dell’anca.

Come si manifesta la zoppia nel segno del Trentelenburg?

Si manifesta con una deambulazione anomala, nel momento in cui il paziente sta in appoggio monopodico durante il trasferimento di carico da un’emilato all’altro, nell’esecuzione della fase del passo.

Il segno del Trendelenburg può avere una rilevanza sia ortopedica che neurologica e non è assolutamente raro avere una concomitanza di fattori, che fanno insorgere tale zoppia come combinazione di causa effetto.

L’andatura nel segno del Trendelenburg, si caratterizza per l’accentuazione, in maniera del tutto anomala, di un movimento laterale del bacino dal lato del deficit ed una caduta dell’emibacino controlaterale al segmento in disfunzione.

Cause

Il motivo di questa zoppia è riscontrato in un indebolimento dei muscoli abduttori dell’anca, in particolar modo dei muscoli piccolo e medio gluteo e in parte ridotta del muscolo tensore della fascia lata.

Il deficit di forza e di resistenza dei muscoli abduttori dell’anca prima citati, può essere indotto da diversi fattori che agiscono in maniera singola o combinata:

  • contrattura muscolarezoppia trentelenburg cause
  • elongazione e/o lacerazione delle fibre muscolari
  • irritazione, neuropatia dismetabolica o stupor del nervo gluteo superiore
  • esiti della poliomielite
  • distrofia muscolare

Questi fattori possono essere di natura primaria o essere concausa di fattori scatenanti come:

  • gli eventi traumatici che causano una lussazione dell’anca associata ad una frattura dell’acetabolo
  • i postumi dell’intervento di protesizzazione dell’articolazione coxo-femorale
  • uno stupor da stiramento del nervo gluteo superiore
  • un’irritazione del nervo sopra citato, per compressione dei punti di passaggio inerenti ai forami di coniugazione di L4 ed L5, del grande frame ischiatico, della loggia sopra piriforme
  • una discinesia dei muscoli stabilizzatori dell’anca
  • uno sforzo eccessivo della muscolatura degli abduttori dell’anca.

zoppia trentelenburg 03La diagnosi della zoppia nel segno del Trentelenburg

Nella ricerca della zoppia secondo il segno del Trendelenburg, l’anamnesi è il punto di partenza per raccogliere i dati sulla presenza e lo sviluppo di patologie, che ne possano innescare segni e sintomi di relazione all’articolazione coxo-femorale, ai muscoli abduttori dell’anca e al nervo grande gluteo.

L’esame obiettivo dello specialista mira ad effettuare una serie di test e valutazioni, che mettono alla prova la stabilità dell’anca, la sua corretta articolarità, l’attivazione muscolare e la resistenza allo sforzo (il test del Trendelenburg prevede che il paziente, flettendo l’anca sana in avanti e mantenendola tale per almeno 15 secondi, non riesca a mantenere i fianchi paralleli tra di loro, notando un’abbassamento dell’emilato sano).

rx bacino protesiLe indagini strumentali quali rx, rm, ecografia ed elettromiografia, possono aiutare a valutare nel dettaglio lo stato anatomico della struttura osteo-articolare, lo stato in essere dei muscoli abduttori dell’anca e la capacità di trasmissione del messaggio neurologico periferico motorio alla placca motrice, nel contesto dell’attivazione muscolare.

Le analisi di laboratorio possono essere molto utili, se il deficit dei muscoli finora citati, rientra in quadro più ampio di nevrite dismetabolica o di distrofia muscolare.

Il trattamento della zoppia nel segno del Trendelenburg

Il trattamento della zoppia nel segno del Trendelenburg ha approcci diversi, che stabiliscono il percorso di cura differentemente dalle eziologie che ne hanno scatenato la comparsa.

Può essere da subito consigliato un ausilio temporaneo per scaricare il peso del corpo e migliorare la deambulazione, utilizzando uno o due bastoni canadesi, in maniera tale da non affaticare le articolazioni delle anche e quelle di scarico per compenso, quali le ginocchia e le articolazioni vertebro-sacrali nel passaggio iliaco.

Nel caso sia presente anche uno stato infiammatorio, sarà utile fare ricorso a farmaci antinfiammatori perlopiù FANS.

Solamente nel caso sia presente uno stato edematoso infiammatorio rilevante, si potrà far uso di corticosteroidi.

fisioterapia ancaLa fisioterapia ha un ruolo rilevante nella gestione della zoppia affrontata, andando ad ottimizzare la performance biomeccanica articolare dell’anca, liberandola in maniera multiplanare ed elasticizzando le componenti tendineo-legamentose di riferimento.

Sarà fondamentale anche migliorare la funzione vertebrale ed i punti critici di passaggio neurologici, sia nelle radici che compongono il nervo gluteo superiore, sia nel percorso che affrontano per arrivare ad innervare il muscolo piccolo-medio gluteo e il tensore della fascia lata.

fisioterapia recuperoIl recupero del tono e del trofismo dei muscoli abduttori dell’anca, è strettamente necessario per rendere l’articolazione dell’anca stabile durante la deambulazione.

Non ultimo sarà necessario recuperare uno schema propriocettivo adeguato, per ottimizzare la corticalizzazione motoria in quelle che sono le normali attività deambulatorie.

Abbiamo imparato che la zoppia nel segno di Trendelenburg, ha una variabilità di concause ben definite e che se affrontate nella maniera corretta, può ottenere una stabile risoluzione.

La salute passa attraverso la conoscenza e con l’articolo di oggi abbiamo la possibilità di aggiungere un tassello al nostro benessere.

Vitamina D

La vitamina D, conosciuta anche con il nome di calciferolo, svolge un ruolo essenziale per le funzioni vitali come cofattore delle vie metaboliche, con proprietà primarie antirachitiche.

Vitamina D, D2 e D3

Ha una sotto divisione in vitamina D2 (ergocalciferolo) e in vitamina D3 (colecalciferolo).

La vitamina D3 viene prodotta in per via endogena, tramite la trasformazione del colesterolo attraverso i raggi ultravioletti assorbiti a livello cutaneo ed in parte è acquisita per via esogena con un’alimentazione di prodotti animali.

La vitamina D2 viene introdotta per via esogena attraverso l’alimentazione di prodotti vegetali.

Assunzione della Vitamina D

Vitamina D 02C’è da dire che la quantità di vitamina D che si riesce ad incamerare attraverso l’alimentazione è bassa e che la maggior parte del calciferolo ottenuto, segue il percorso di sintetizzazione a livello cutaneo per azione dei raggi ultravioletti.

È una vitamina liposolubile, ovvero che può sciogliersi nei solventi grassi ed è necessaria per l’assorbimento del calcio attraverso l’intestino, ottimizzando la salute delle ossa, con un processo omeostatico di metabolizzazione del calcio stesso e del fosfato.

È pertanto primario per la crescita dello scheletro, per il rimodellamento osseo e per il trofismo cartilagineo.

Ha altri importanti compiti che sono quelli di favorire il riassorbimento di calcio, fosfati e magnesio attraverso l’intestino, di promuovere il riassorbimento di fosforo e calcio attraverso i reni, di supportare la funzione immunitaria, di coadiuvare la crescita cellulare e di interagire con i processi infiammatori riducendone l’attività.

Le cause della riduzione della Vitamina D

Le cause che possono dare una riduzione della vitamina D sono da ricercare in una:

  • diminuita esposizione cutanea ai raggi ultravioletti (quindi alla luce del sole)
  • un ridotto apporto alimentare
  • un malassorbimento digestivo cronico
  • un’insufficienza renale cronica
  • un’ insufficienza epatica
  • per interazioni farmacologiche.

Ma cosa comporta una carenza di vitamina D nella persona?

Vitamina D 03Nei bambini provoca rachitismo, mentre negli adulti osteomalacia (difetto di mineralizzazione della matrice ossea), causando in entrambi deformazioni osee e fragilità, tra cui l’osteoporosi.

Inoltre a livello ematico, si riscontrano livelli alterati quali:

  • aumento del paratormone
  • aumento della fosfatasi alcalina
  • riduzione di fosforo
  • riduzione del calcio.

E allora la domanda che viene spontanea porsi è: quali sono i valori di vitamina D che normalmente dovrebbero essere assunti come fabisogno giornaliero?

Vi propongo una tabella riassuntiva di facile interpretazione.

Vitamina D 04

I valori riportati sono quelli stilati per una popolazione europea, ma ogni continente ha dei valori propri, che tengono presente le condizioni ambientali e il tipo di cibo più facilmente reperibile nella dieta alimentare di contesto.

farmaciFortunatamente i casi di rachitismo oggi sono alquanto rari, mentre si assiste con frequenza a problemi di metabolismo osseo di tipo malacico negli adulti e ancor più negli anziani.

Se non si riescono a correggere i fattori precedentemente annoverati nella giustificazione della carenza di vitamina D, si può ricorrere ai numerosi integratori e farmaci, ma facendo attenzione a non sorpassare i valori di soglia tollerabili, perché un eccesso di vitamina D, può causare degli effetti collaterali anche gravi:

  • dolori articolari
  • crampi
  • cefalea
  • nausea
  • calcificazioni segmentali tissutali e di organi, per aumento di calcio nel circolo ematico
  • malformazioni fetali nelle donne incinta.

La giusta dose

Pertanto la vitamina D deve essere assolutamente presente nel nostro corpo in un arco di valori minimi e di valori massimi di tolleranza, perché come per ogni cosa, gli eccessi in negativo e in positivo causano delle disfunzioni metaboliche e organiche che minano lo stato di salute della persona.

È facile poter tenere sotto controllo il livello di vitamina D nel corpo per mezzo di semplici analisi del sangue, così com’è facile integrarla attraverso una corretta ed adeguata alimentazione, ma soprattutto grazie all’esposizione dei raggi ultravioletti e quindi alla luce del sole…..non facciamoci cogliere impreparati.

La salute passa attraverso la conoscenza e con l’articolo di oggi abbiamo la possibilità di aggiungere un tassello al nostro benessere.

Entesite

entesite 01Con il termine di entesite, si indica l’infiammazione di quelle porzioni tendinee o legamentose che prendono rapporto con l’osso sul quale si inseriscono.

Le entesiti possono riguardare ogni parte dell’apparato locomotore, ma va detto che alcune sedi del corpo ne sono maggiormente soggette, soprattuto se la causa è data da sovraccarico funzionale o da microtraumi ripetuti.

Antomia

Come accennato poc’anzi, le strutture interessate possono riguardare sia i tendini (dalla struttura biologica di tessuto connettivo fibroso ad alto contenuto di collagene, che unisce un muscolo ad un osso) che i legamenti (simili nella struttura biologica ai tendini, ma che uniscono due porzioni differenti di una zona articolare o di uno stesso osso), pertanto i meccanismi patologici possono essere per alcuni aspetti del tutto diversi tra di loro.

Sintomi dell’ entesite

I segni caratteristici dell’ entesite sono tutti riferibili a quelli tipici dell’infiammazione:

  • rubor (rossore)
  • tumor (tumefazione)
  • calor (calore)
  • dolor (dolore)
  • functio laesa (deficit funzionale)

entesite 02A questi sintomi va aggiunto un senso di rigidità che si accentua maggiormente dopo un periodo prolungato di inattività nelle pause giornaliere.

La zona di localizzazione dei segni sopra descritti è locale e perilocale ai tessuti tendinei, o legamentosi interessati dall’entesite.

In tutti quei pazienti dove la patologia si manifesta in maniera consistente, si associa una grave perdita di funzionalità che mina anche le attività di vita quotidiane.

Se l’entesite perdura nel tempo e non risponde alle corrette terapie, si può assistere alla formazione di calcificazioni, di tendinosi (specificatamente a carico dei tendini), di esostosi, come reazione anomala dell’osso nel punto di inserzione sia dei tendini che dei legamenti, fino ad arrivare nei casi più gravi alla lacerazione parziale delle fibre dei tessuti molli interessati.

Le cause

entesite 03Le cause che portano alla formazioni di entesite sono da suddividere in 4 macro categorie:

  • da sovraccarico funzionale per sollecitazioni ripetute e protratte nel tempo, sia nelle attività lavorative, che sportive, che ludiche
  • da trauma per eventi acuti di tipo compressivo, distrattivo, distorsivo, sia del tessuto molle interessato e/o delle porzioni osteo-articolari di innesto
  • da malattie sistemiche di origine autoimmunitaria come ad esempio l’artrite reumatoide, l’artrite psoriasica l’artrite reattiva, la spondilite anchilosante
  • da patologie dismetaboliche come il diabete, la gotta, l’ipercolesterolemia e l’ipertrigliceridemia.

È facile intuire che a seconda delle cause, l’insorgenza dell’entesite può essere acuta o subdola, può avere un’esacerbazione di segni e sintomi esponenziale, oppure graduale, ma in ogni caso al conclamarsi della patologia, i risvolti clinici saranno tra di loro simili.

Diagnosi dell’ entesite

Nella diagnosi dell’entesite, l’anamnesi è il punto di partenza per raccogliere i dati sulla presenza e lo sviluppo dei segni e dei sintomi associati alla patologia, sia nell’ottica del puro segmento anatomico, che in relazione alle altre strutture correlate, cercando di ottenere informazioni sulle possibili cause che la possano aver attivata.

entesite 04L’esame obiettivo dello specialista mira ad effettuare una serie di test e valutazioni, che mettono alla prova la funzione, la resistenza e la stabilità del tendine/legamento, sia nei movimenti attivi che passivi, in rispondenza all’esacerbazione del dolore.

È importante associare la diagnostica per immagini, in maniera tale da poter valutare lo stato anatomico delle strutture tendinee e/o legamentose affette da entesite.

entesite 05Per tale scopo si potrà far ricorso all’utilizzo di esami ecografici o di RM, nell’intento di studiare la conformazione dei tessuti molli, il processo infiammatorio in atto e la presenza di edema relativo.

Per la valutazione di possibili esostosi reattive, o di eventuali calcificazioni, sarà meglio far fede ad indagini mirate tramite RX.

Il trattamento

Il trattamento delle entesiti ha un protocollo simile qualunque sia la causa scatenante, ma è vero che gli accorgimenti per rendere il trattamento efficace, saranno da ottimizzare in maniera congrua all’eziologia che ne ha scaturito la patologia.

entesite 06Il riposo, il ghiaccio, l’utilizzo di tutori appropriati o il confezionamento di bendaggi elastici contenitivi, saranno i primissimi passi da proporre al paziente, a cui verrà associata una terapia antinfiammatoria, perlopiù a base di FANS.

I corticosteroidi possono essere prescritti, ma per un periodo brevissimo di somministrazione, perché lo stesso cortisone può essere un fattore favorente la comparsa dell’ entesite, se somministrato per un lungo periodo.

La fisioterapia è strettamente necessaria per ridurre l’infiammazione e favorire il recupero della funzione del tendine o dei legamenti, sia come tessuto, che come porzione anatomica di relazione rispetto ad un muscolo, ad un’ articolazione, ad un segmento osseo specifico.

Vediamo adesso quali sono le accortezze da adoperare nella gestione secondaria della patologia.

Nel caso di un’ entesite da sovraccarico funzionale, sarà necessario ridurre tutte quelle condizioni di sollecitazioni ripetute e protratte nel tempo, durante le attività lavorative, sportive, o ludiche, che ne sono state la causa di innesco.

In un’ entesite da trauma, basterà spegnere l’infiammazione legata all’evento e dare il tempo necessario al tessuto, per poter riparare il danno cellulare subito.

ChirurgiaNell’ entesite da malattie sistemiche di origine autoimmunitaria, è strettamente necessario ridurre l’iperattività del sistema immunitario per evitare che attacchi in maniera violenta i propri tessuti molli, tra cui le stesse entesi, riducendo il rischio di una ricaduta.

Le entesiti da patologie dismetaboliche, necessitano di una correzione alimentare, farmacologica o un incremento dell’attività fisica, mirata a ridurre la produzione o gli eccessi di accumulo, di tutte quelle sostanze che possono favorire l’insorgere di infiammazione o di degenerazione dei tendini o dei legamenti.

Nel caso in cui l’ entesite non dovesse rispondere ne alle cure primarie, ne a quelle fisioterapiche e a lungo termine non dovesse rispondere neanche alle gestione secondaria delle concause patologiche, allora si potrà optare per un trattamento chirurgico, dove l’intento sarà quello di fare un pulizia dei tessuti, una rimozione di eventuali calcificazioni e una riparazione, qualora se ne presentasse la necessità, delle fibre lacerate o lesionate.

L’atto chirurgico necessita di un periodo di immobilità, funzionale alla guarigione biologica dei tessuti, per poi proseguire con un percorso riabilitativo, necessario per recuperare le funzioni legate al contesto osteo-articolare-muscolare.

La guarigione dell’ entesite è possibile, con dei tempi di remissione direttamente proporzionali alla tempestività con cui si è intervenuti nel diagnosticarla, nel mettere a riposo la struttura interessata e nel somministrare la giusta cura.

La patologia di cui abbiamo parlato oggi può essere variabilmente invalidante, ed in ogni caso non va assolutamente sottovalutata, evitando che possa cronicizzare.

Dall’ entesite si guarisce, ma in nessun caso vanno forzati tempi di recupero.

La salute passa attraverso la conoscenza e con l’articolo di oggi abbiamo la possibilità di aggiungere un tassello al nostro benessere.

Artrodesi – Anchilosi chirurgica

Artrodesi 01L’ artrodesi è la fusione chirurgica di una struttura articolare per renderla immobile.

I capi articolari che compongono l’articolazione, vengono chirurgicamente e quindi volontariamente, stabilizzati tra di loro, in maniera tale che non possano più effettuare movimento, diventando un elemento statico.

Artrodesi: campi di applicazione

Questo tipo di intervento può essere fatto sia sulla colonna vertebrale, sia sulle articolazioni periferiche.

L’ artrodesi è una strategia terapeutica estrema, che viene presa in considerazione nel momento in cui l’articolazione interessata è estremamente danneggiata, perdendo sia le caratteristiche anatomiche di massima, sia la funzionalità minima, innescando nel paziente, oltre che una disfunzione articolare permanente, una sintomatologia dolorosa persistente ed estremamente invalidante.

L’anchilosi chirurgica ha come obiettivo la netta riduzione, o addirittura l’eliminazione del dolore a scapito della funzione articolare, secondo il principio per cui le strutture osto-articolari e capsulo-legamentose bloccate, riducono praticamente a zero gli stimoli sui tessuti indicati, non attivando più i recettori nocicettivi di relazione.

Perché sceglierla?

Ma perché il chirurgo dovrebbe scegliere la strada dell’artrodesi, se il paziente può ottenere la riduzione del dolore con la protesizzazione articolare, nel caso in cui la stessa articolazione sia estremamente danneggiata?

L’ artrodesi viene scelta nel caso in cui il paziente non possa essere sottoposto ad intervento di protesizzazione, oppure ne abbia subito uno o più, con scarsi risultati.

Artrodesi 02Ma vediamo i casi in cui si ricorre all’anchilosi chirurgica in prima battuta o come scelta terapeutica secondaria:

  • impossibilità nel protesizzare tutte le articolazioni (non esistono protesi per ogni tipo di articolazione del corpo umano, ma ne abbiamo a disposizione solamente alcune)
  • condizioni sfavorevoli (metaboliche e/o interimistiche) del paziente nel ricevere una protesi
  • rigetto della protesi
  • infezioni ripetute nel comparto della protesizzazione, resistenti alle varie cure antibiotiche.

Per quali patologie si sceglie l’artrodesi?

Artrodesi 03Dopo aver visto le condizioni che protendono alla scelta dell’ artodesi, vediamo adesso quali sono le patologie articolari che possono richiedere un’anchilosi chirurgica:

  • fratture articolari che non danno la possibilità di ricomporre i frammenti ossei in maniera funzionale e che ne causano una grave deformazione
  • necrosi ossea
  • patologie artritiche deformanti
  • grave artrosi.

Metodologia

L’artrodesi può essere eseguita seguendo vari metodi.

Possono essere utilizzati mezzi di sintesi di varia natura quali: perni, fili di Kirschner e similari, placche, viti, trapianti di tessuto osseo, accedendo nella zona articolare sia per via artoscopica, sia a cielo aperto.

I trapianti di tessuto osseo possono essere di tipo AUTOLOGO (di proveniente dallo stesso paziente), di tipo ALLOGENICO (proveniente da un donatore), di tipo SINTETICO (creato in laboratorio in maniera artificiale).

L’ artrodesi delle maggiori articolazioni, prevede un periodo di immobilità in tutore o in gesso, per far si che i capi articolari dell’articolazione si possano saldare correttamente.

Artrodesi 04Nella fase post operatoria è importante ridurre gli effetti chirurgici di cicatrizzazione, andando ad evitare la formazione di aderenze, che potrebbero innescare un dolore cronico.

Va assolutamente eliminata la presenza di edema sia di tipo venoso che linfatico del segmento inerente all’intervento e dei segmenti contigui.

Vanno ottimizzare le funzioni articolari, muscolari e capsulo-legamentose, dei fulcri di movimento che hanno capacità di compensare il blocco artrodesico indotto, cercando di recuperare un movimento globale sinergico, che possa ottimizzare le funzioni similari a quelle dell’articolazione bloccata.

Artrodesi e recupero

Il recupero proriocettivo è fondamentale sia in statica che in dinamica, per corticalizzare a livello cerebrale il miglior schema motorio possibile.

ChirurgiaDa non dimenticare che insieme al recupero fisioterapico e riabilitativo, il paziente deve essere sottoposto a controlli radiografici per accertarsi che il decorso post-operatorio, sia congruo con la fusione dei capi articolari, in relazione ai mezzi di sintesi e/o in relazione all’innesto di tessuto biologico.

L’ artrodesi è una strada terapeutica che in extrema ratio, serve a ridurre notevolmente o eliminare un dolore articolare da patologia dismorfica.

Chiaramente non è un intervento che si affronta con leggerezza, ma spesso la sua capacità di ricondizionare lo stato di dolore gravemente invalidante, riesce a dare maggiori benefici funzionali, rispetto agli effetti collaterali biomeccanici che lo caratterizzano.

La salute passa attraverso la conoscenza e con l’articolo di oggi abbiamo la possibilità di aggiungere un tassello al nostro benessere.

Artrite psoriasica

Artrite psoriasica 01L’artrite psoriasica è una patologia di tipo infiammatoria con caratteristiche di cronicità, che colpisce le articolazioni.

Si manifesta nei pazienti che hanno già conclamato la presenza della psoriasi, con una percentuale di rischio del 30%.

La psoriasi è una malattia che altera lo stato in essere della pelle, causando un’anomala cheratinizzazione e sviluppando circoscritte chiazze arrossate in rilievo, sulle quali si evidenziano delle desquamazioni a placche.

Si stima che ne soffra circa il 2% della popolazione mondiale.

La psoriasi è anch’essa una malattia infiammatoria cronica sistemica, caratterizzata da complesse basi fisiopatologiche autoimmunitarie, assolutamente non contagiosa, che coinvolge varie aree della cute, con delle zone peculiari a seconda del tipo di psoriasi.

Artrite psoriasica 02Psoriasi volgare:

  • tronco
  • regione sacrale
  • gomiti,
  • ginocchia
  • cuoio capelluto.

Psoriasi inversa o flessurale:

  • pieghe cutanee (ad esempio le pieghe inguinali)
  • ascelle.

Artrite psoriasica 03Psoriasi guttata che colpisce maggiormente bambini ed adolescenti, manifestandosi con piccole papule eritematose, diffuse principalmente al tronco.

Psoriasi pustolosa che evidenzia pustole sterili multiple, localizzate o generalizzate.

Psoriasi eritrodermica, forma rara, dove l’area corporea risulta eritematosa ed infiammata, per un’estensione che può risultare pari al 90% della superficie corporea; l’interessamento cutaneo è associato a sintomi sistemici.

Vari studi clinico-scientifici hanno associato alla psoriasi e all’artrite psoriasica, la possibilità di vedere coinvolti altri organi nello sviluppo di comorbilità (occhi, cuore, polmoni e reni).

Sono rari i casi in cui l’artrite psoriasica si manifesta antecedentemente alla comparsa della psoriasi.

L’artrite psoriasica si sviluppa in egual misura tra maschi e femmine, con un’età di insorgenza più frequente tra  30 e i 50 anni.

La sua attività patologica non è sempre costante, ma si alternano periodi ON a periodi OFF, con una remissione massiva dei sintomi.

Come per la psoriasi, anche l’artrite psoriasica viene catalogata tra le patologie di tipo autoimmunitario.

I sintomi dell’artrite psoriasica sono maggiormente a carico delle articolazioni vertebrali e distali, interessando in maniera maggiore le mani nelle porzioni metacarpo-falangee / interfalangee e in maniera minore i piedi, ma può inoltre colpire ginocchia, anche, gomiti e spalle.

La sintomatologia e il quadro clinico, sono simili per molti aspetti a quelli dell’artrite reumatoide, con una caratteristica simmetria di segni patologici, se colpiti gli arti.

Artrite psoriasica 04A livello vertebrale le porzioni più interessate sono quelle del segmento lombare e delle giunzioni sacro-iliache.

Le articolazioni si presenteranno gonfie, rigide e dolenti, con una limitazione funzionale che ne riduce sia il movimento, che la capacità di forza e resistenza muscolare, per un rapporto di causa effetto articolare / muscolo-tendineo.

Nei punti articolari con connessioni legamentose e tendinee, l’infiammazione reattiva artritica, può coinvolgere anche i tessuti molli, provocando delle entesiti.

La sintomatologia legata all’artrite psoriasica non è costante, ma ha dei momenti di attività patologica, alternati a momenti di silenzio e di remissione della malattia.

C’è da dire che essendo una patologia infiammatoria autoimmunitaria a carico delle articolazioni, la permanenza dello stato flogistico, causa un’alterazione dei capi articolari e delle loro capsule, avanzando uno stato di dismorfismo direttamente proporzionale al tempo di durata dell’evento acuto e al ripetersi degli eventi.

Artrite psoriasica 05Pertanto se l’infiammazione acuta non viene bloccata tempestivamente e non si previene il ripetersi delle aggressioni, le articolazioni interessate andranno via via a rovinarsi, al punto tale che si verificherà un cambiamento anatomico dei capi articolari e delle loro cartilagini, andando a favorire una deviazione dell’asse articolare, una deformità permanente e un’artrosi precoce.

Bisogna aggiungere che l’artrite psoriasica, come effetto secondario, può essere concausa di una perdita di massa ossea.

La causa dell’artrite psoriasica è di natura autoimmunitaria, ovvero il sistema immunitario, attacca le cellule normali dell’organismo, causando un’infiammazione reattiva delle articolazioni.

Può svilupparsi in maniera primaria o essere condizionata da una familiarità.

Artrite psoriasica 06La predisposizione genetica al mutamento anomalo della risposta immunitaria, si associa con frequenza ad eventi stressanti per l’orgasmo che spaziano su vari fronti:

  • infezioni
  • traumi
  • stress
  • eccessiva stanchezza fisica protratta per lunghi periodi
  • cattiva alimentazione
  • alterazione del ciclo sonno-veglia
  • interventi chirurgici.

Nella diagnosi di artrite psoriasica, l’anamnesi è il punto di partenza per raccogliere i dati clinici sulla presenza e lo sviluppo dei segni e dei sintomi associati alla conformazione e alla funzione articolare.

Artrite psoriasica 07L’esame obiettivo dello specialista mira ad effettuare una serie di test e valutazioni, che mettono alla prova la funzione dell’articolazione, sia nei movimenti attivi che passivi, in rispondenza all’esacerbazione del dolore e alla resistenza articolare nell’attivazione muscolare.

Gli esami di laboratorio sono strettamente necessari per valutare la presenza di fattori infiammatori, la modificazione dei valori riferibili all’attività immunitaria e per escludere patologie associabili nella diagnosi differenziale.

Non sono da escludere esami genetici per la ricerca del gene HLA-B27, associato nel 50% dei casi di artrite psoriasica, con interessamento della colonna vertebrale.

Se le articolazioni interessate sono grandi, come ad esempio il ginocchio, si può procedere con un’artrocentesi, per poter analizzare lo stato biologico del liquido sinoviale estratto.

Le indagini diagnostiche sono essenziali per poter valutare lo stato in essere delle strutture articolari, capsulo-legamentose e tendinee, valutandone sia la conformazione, che la presenza o meno di processi flogistici.

Per tale scopo potranno essere usate radiografie, esami ecografici e risonanze magnetiche.

Ricordando che l’artrite psoriasica può essere una concausa di perdita della massa ossea, viene spesso consigliato un controllo tramite MOC, valutandone la presenza o meno di osteoporosi.

Il trattamento per l’artrite psoriasica, ha a disposizione diverse varianti farmacologiche, tutte quante intente a ridurre l’infiammazione, a ridurre il dolore, a contenere l’azione patologica autoimmunitaria e a limitare i danni biologici tissutali/articolari.

In prima battuta verranno utilizzati i FANS come antinfiammatori non steroidei, per passare alla somministrazione di corticosteroidi, nel momento in cui i FANS non dovessero aver ottenuto gli effetti desiderati nel contrastare l’infiammazione.

farmaci
I farmaci antireumatici modificanti la malattia (DMARD), vengono utilizzati nel momento in cui gli antinfiammatori non dovessero aver successo, contribuendo a rallentare la progressione dell’artrite psoriasica, limitando il danneggiamento del tessuto osseo, legamentoso, tendineo e cartilagineo.

I farmaci antireumatici DMARD, hanno un’azione lenta, riscontrando un buon risultato nell’arco di 4-6 mesi.

Questi farmaci devono essere utilizzati nelle fasi iniziali di sviluppo dell’artrite reumatoide, in modo tale da poter prevenire la distruzione della rima articolare e l’inabilità funzionale annessa.

I modificatori della risposta biologica, sono un’altra categoria di farmaci che utilizzano la tecnologia del DNA  ricombinante.

I modificatori della risposta biologica prescritti per l’artrite psoriasica, agiscono su bersagli specifici e possono essere inibitori del TNF-α -, antagonisti di IL-12 e IL-23 e inibitori di IL-17.

La chirurgia viene presa in considerazione nel momento in cui le strutture articolari abbiano subito un rimaneggiamento tale, da rendere inefficiente la funzione nelle attività minime di vita quotidiana.

Non tutte le articolazione possono essere ricondizionate dalla chirurgia, ma in quelle ove se ne presenti l’opportunità, si può pensare di proporre la protesizzazione, mediante la quale si impianta una neo articolazione, libera dal rischio di recidive della patologia artritica.

Artrite psoriasica 08La fisioterapia diventa fondamentale per mantenere e/o recuperare la funzionalità articolare, riducendo il rischio di anchilosi e mantenendo un buono stato di elasticità delle strutture capsulo-legamentose e tendinee.

Concludendo abbiamo capito che i pazienti affetti da psoriasi, che abbiano sviluppato o meno l’artrite di relazione, devono affidarsi ai controlli e alla gestione specialistica sanitaria, per evitare l’evoluzione di una patologia invalidante nel sistema osteo-articolare.

Le attuali terapie possono controllare i sintomi e prevenire danni permanenti alle articolazioni…….non nascondiamo la testa sotto la sabbia, ma affrontiamo la malattia con determinazione e fiducia.

La salute passa attraverso la conoscenza e con l’articolo di oggi abbiamo la possibilità di aggiungere un tassello al nostro benessere.

 

 

 

 

 

 

Prostatite

Prostatite 01Per prostatite si intende un’infiammazione a carico della ghiandola prostatica.

E’ una patologia che si manifesta generalmente negli uomini già al di sotto dei 50 anni, interessando una ragguardevole fetta della popolazione, in una percentuale che può variare dal 30% al 50%.

La prostatite si divide principalmente in 4 categorie:

  • prostatite acuta batterica
  • prostatite cronica batterica
  • prostatite cronica abatterica (o sindrome dolorosa pelvica cronica)
  • prostatite asintomatica.

La prostata è una ghiandola costituita da lobi di tessuto fibroso e muscolare, appartenente all’apparato genitale maschile, la cui funzione primaria è quella di secernere liquido prostatico, costituendo circa un quarto del totale dello sperma.

È posizionata sotto la vescica, davanti al retto e avvolge la prima parte dell’uretra.

Prostatite 02Il liquido prostatico ha varie funzioni:

  • aumento  della motilità degli spermatozoi
  • riduzione dell’acidità delle urine
  • riduzione dell’acidità delle secrezioni vaginali, nell’intento di favorire una sopravvivenza maggiore degli spermatozoi
  • ottimizzazione dei processi di coagulazione e fluidificazione dello sperma extracorporeo

Il liquido prostatico utilizza l’uretra come canale esterno di uscita.

Prostatite 03I sintomi caratteristici della prostatite sono molteplici e abbracciano numerosi parametri:

  • disuria (difficoltà, bruciore e dolore durante la minzione)
  • pollachiuria (aumento della frequenza nella minzione)
  • alle volte incontinenza parziale
  • infertilità
  • impotenza
  • febbre alta
  • dolore pelvico
  • dolore nella zona perigenitale
  • dolore lombare
  • dolori muscolari.

La prostatite può comportare la comparsa della sindrome dolorosa del pavimento pelvico, a causa della permanenza di uno spasmo muscolare perineale, in particolare dei muscoli elevatori dell’ano, con la possibile associazione di una nevrite dei nevi pudendi ti tipo irritativo/infiammatoria.

Come accennato in precedenza la prostatite può essere divisa in una forma batterica (acuta, cronica, asintomatica) o abatterica.

La carica batterica nella forma acuta si deposita nella ghiandola prostatica, mentre nella forma cronica si assiste ad una proliferazione della carica batterica che precedentemente ha attecchito.

Prostatite 04Nella forma acuta i batteri responsabili dell’infiammazione, sono derivanti da più specie quali:

  • batteri fecali (escherichia coli, proteus, klebsiella, serratia, pseudomonas)
  • batteri a trasmissione sessuale (neisseria gonorrhoeae, clamidia trachomatis, l’ureaplasma urealyticum)
  • altri batteri (enterococco, stafilococco, salmonella, micobatterio).

Le infezioni batteriche sono maggiormente aggressive se il paziente tende ad avere un’indebolimento del sistema immunitario, se ha delle patologie sistemiche concomitanti, o se ha delle abitudini di vita scorrette inerenti la gestione dello stress, l’abuso di alcol, di droghe, o alla scarsa igiene personale.

Nella prostatite cronica, generalmente si ha una recidiva per la proliferazione di batteri che si sono annidati in aree difficilmente raggiungibili dalla terapia antibiotica, o per la presenza di infezioni ricorrenti delle vie urinarie.

Prostatite 05La prostatite cronica abatterica, è caratterizzata dall’assenza di segni infettivi e nonostante ancora non si è certi delle cause che la determinano, si pensa che l’insorgenza sia legata ad eventi adattativi e/o traumatici in ambito lavorativo, sportivo e similari, o chirurgici del tratto urinario inferiore.

Proprio per l’assenza di fattori infettivi, la possibile eziologia di tipo disfunzionale su base anatomopatologica, può innescare la presenza della sindrome dolorosa pelvica cronica, di cui sopra abbiamo accennato.

La prostatite asintomatica è invece una vera e propria prostatite, caratterizzata dalla presenza di agenti infettivi che ne scatenano la patogenesi, pur rimanendo silente al paziente.

La diagnosi parte da un’attenta anamnesi, concentrata sul raccogliere i segni e i sintomi riportati dal paziente, per poter indirizzare la ricerca di esami approfonditi, supportando la tesi clinica della prostatite.

Prostatite 06Sarà necessario sottoporre il paziente ad un’esame obiettivo che analizzi lo stato di salute generale e ad una palpazione per via digito-retta della prostata, supportata da un’ecografia vescico prostatica, o nei casi più incerti da un’ecografia trans-rettale.

Gli esami di laboratorio sono fondamentali nella ricerca del ceppo batterico che ha dato via alla prostatite e potranno essere effettuati tramite l’analisi delle urine, del liquido seminale e del secreto prostatico.

Il trattamento si differenzia se la prostatite e di natura batterica o abatterica.

Nella categoria batterica si procederà per via farmacologica, alla somministrazione di antibiotici specifici, associando degli integratori che possano favorire il recupero biologico e funzionale della ghiandola prostatica.

E’ consigliabile apportare delle modifiche alimentari che possano ridurre i fattori del metabolismo infiammatorio.

Nelle prostatiti abatteriche verranno utilizzati antinfiammatori, associando un aumento di assunzione di liquidi, un miglioramento del drenaggio prostatico e un equilibrio neutro tonico/trofico del pavimento pelvico.

Nel caso della sindrome dolorosa del pavimento pelvico, sarà importante agire con farmaci antinfiammatori e miorilassanti, associando il supporto della fisioterapia, per ottimizzare le funzioni del pavimento pelvico, riducendone lo stato di tensione muscolare.

Nel momento in cui non si riuscisse ad ottenere un miglioramento stabile della sindrome dolorosa del pavimento pelvico, si può pensare di intervenire con delle infiltrazioni di cortisonici e/o di anestetici, dirette sul nervo pudendo.

Qualunque sia la causa della prostatite è sempre consigliabile evitare tutto quelle attività fisiche che possano aumentare il rischio di traumi del perineo.

La prostatite è una patologia molto fastidiosa e limitante, che può modificare la vita del paziente sia nella funzione urologica che in quella sessuale.

Bisogna capirne la causa e agire in fretta per evitare la cronicizzazione del problema, recuperando uno stato di salute ottimale.

La salute passa attraverso la conoscenza e con l’articolo di oggi abbiamo la possibilità di aggiungere un tassello al nostro benessere.

Conflitto femoro-acetabolare o FAI (Femoro Acetabular Impingement)

Conflitto femoro-acetabolare o FAI 01Il conflitto femoro-acetabolare, denominato FAI, ovvero impingment femoro-acetabolare, è una condizione anatomica alterata tra la testa del femore e l’acetabolo, che per un cambiamento di morfologia si sfregano, provocando a lungo andare una condizione dolorosa, una disfunzione articolare e una predisposizione ad un’artrosi segmentale precoce, danneggiando sia le cartilagini che il labbro acetabolare.

L’articolazione dell’anca, costituita dalla testa del femore e dall’acetabolo, in condizioni normali godono di uno spazio articolare che tramite la regolarità delle cartilagini, permettono il normale scorrimento del movimento nei 3 piani dello spazio.

Se l’alterazione anatomica è a carico della testa e/o del collo del femore, assumendo una conformazione maggiormente ovalare e/o maggiormente voluminosa, avremo un FAI di tipo CAM, mentre se l’alterazione anatomica è a carico dell’acetabolo, assumendo una conformazione più ampia del normale, entrando in precoce contatto con il collo del femore, avremo un FAI di tipo PINCER.

Nel caso le due condizioni siano entrambe presenti, si parlerà di FAI COMBINATO o MISTO.

Conflitto femoro-acetabolare o FAI 02Come accennato in precedenza, il sintomo primario del FAI è il dolore evocato nei movimenti dell’anca richiesti attivamente o passivamente nei range articolari estremizzanti i gradi normalmente usati nelle attività minime funzionali, ovvero nella flessione oltre i 100°, nelle intra ed extra rotazioni che si avvicinano già ai 30-35° e nell’abduzione e adduzione che si avvicinano già ai 30°.

Va precisato che il dolore si innesca per un’interessamento della porzione ossea periostale, struttura riccamente innervata e non per un’interessamento cartilagineo, il quale è privo di terminazioni nervose sensitive.

Ovviamente la comparsa del dolore comparirà con anticipo nell’esecuzione del movimento, maggiormente sarà evidente ed importante la malformazione dei capi articolari.

La topografia del dolore è generalmente indicata nella zona inguinale, ma può presentarsi, anche nella zona glutea e nell’area peri-trocanterica.

Conflitto femoro-acetabolare o FAI 03Contestualmente il paziente lamenta anche rigidità articolare, tensione muscolare associata a contratture riflesse e una sensazione di inefficienza nelle attività che richiedono un impegno articolare e uno sforzo fisico maggiore.

Va detto che il FAI non è da subito sintomatico, ma la sua evoluzione è progressiva con il passar del tempo, passando da uno stato di semplice rigidità, ad una sintomatologia dolorosa e ad un’inefficienza articolare maggiormente progressiva, il tutto rapportato allo stato di importanza del conflitto femoro-acetabolare.

Le cause dll’impingmet femore-acetabolare, sono riportate ad uno sviluppo anomalo del segmento in questione durante il periodo di accrescimento, per cause congenite.

In percentuale ridotta il FAI può essere la conseguenza di un danno anatomico traumatico, che ha portato come conseguenza una deformazione delle porzioni articolari, della testa del femore, del labbro acetabolare, dell’acetabolo nella sua porzione intima, associando una o più di una di queste strutture.

Conflitto femoro-acetabolare o FAI 04Nella diagnosi di FAI, l’anamnesi è il punto di partenza per raccogliere i dati sulla presenza e lo sviluppo dei segni e dei sintomi associati alla funzione articolare, sia nell’ottica del puro segmento anatomico, che in relazione alle altre strutture di relazione.

L’esame obiettivo dello specialista mira ad effettuare una serie di test e valutazioni, che mettono alla prova la funzione dell’articolazione, sia nei movimenti attivi che passivi, in rispondenza all’esacerbazione del dolore e alla resistenza articolare nell’attivazione muscolare.

È importante supportare l’ipotesi di diagnosi con esami strumentali di RX, RM, TC, per poter valutare lo stato anatomico delle strutture osteo-articolari, capsulo-legamentose e muscolo tendinee, sia nella loro conformazione, sia nel loro stato di salute.

Il trattamento nel conflitto femoro-acetabolare è in prima battuta di tipo conservativo, dove l’intento è quella di ridurre la sintomatologia e l’infiammazione, utilizzando dei FANS, oppure dei cortisonici se ci fosse associato uno stato edematoso periarticolare.

Conflitto femoro-acetabolare o FAI 05La fisioterapia è fondamentale per cercare di ridurre la pressione endoarticolare, elasticizzando sia le strutture capsulo-legamentose e sia migliorando l’equilibrio tonico delle componenti muscolari agoniste-antagoniste, che creano una relazione di attivazione coordinata dell’articolazione stessa.

Anche la componente fisioterapica strumentale è di grande rilevanza per ridurre il dolore caratteristico del FAI.

Nel caso in cui il trattamento conservativo dovesse fallire, si può intervenire mediante la chirurga, che predilige l’approccio artroscopico, nell’intento di ridurre il dimorfismo articolare soprattutto se a carico del labbro acetabolare.

Qualora il danno sia diventato eccessivo e il paziente si presentasse in condizioni critiche, si può optare per la protesizzazione dell’anca, sostituendo l’articolazione irreparabilmente danneggiata.

Conflitto femoro-acetabolare o FAI 06Va detto che l’approccio di rimaneggiamento articolare artroscopico, ha un buon risultato nel breve termine, ma non mostra una conservazione articolare protratta nel tempo, pertanto una buona percentuale di pazienti, si ritrova ad affrontare una nuova affezione articolare in seconda battuta.

In entrambi gli approcci chirurgici, artroscopico o protesico, è importante che il periodo post operatorio, sia accompagnato da un recupero riabilitativo-fisioterapico, in grado di ricondizionare lo stato di funzione articolare e di ottimizzare le congruenze fisiologiche dei tessuti muscolo-tendinei e legamentosi.

L’impingment femoro-acetabolare può causare una disabilità importante al paziente, ma fortunatamente, conoscendone i segni e i sintomi, ci si può adoperare per limitare i danni nel tempo e per mantenere il soggetto efficacemente attivo dal punto di vista articolare e funzionale.

La salute passa attraverso la conoscenza e con l’articolo di oggi abbiamo la possibilità di aggiungere un tassello al nostro benessere.