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Cinque miti (sfatati) su covid e mascherine

Condivido con piacere un articolo di Focus che riassume in modo chiaro il rapporto tra covid e mascherine.

Le mascherine tolgono ossigeno? Chi non è infetto non le deve indossare? Contro le falsità dei complottisti del web, cinque dubbi chiariti una volta per tutte.

Mascherina sì o mascherina no?

La questione infiamma soprattutto l’arena dei social network (e molte piazze statunitensi), diventando uno dei cavalli di battaglia dei complottisti che sostengono, tra le altre cose, che indossare la mascherina possa essere addirittura dannoso.

Se è vero che l’Italia, secondo un sondaggio dello scorso aprile, si piazzava al terzo posto per numero di persone che indossavano la mascherina (dietro a Vietnam e Cina), è comunque importante rinfrescare la memoria e sfatare alcuni tra i miti più comuni ancora diffusi su uno degli strumenti al momento ancora più efficaci per proteggerci dalla covid e dal suo coronavirus, il SARS-CoV-2.

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Secondo un sondaggio Ipsos, nell’aprile 2020, nel pieno della pandemia anche nel nostro Paese, l’81% degli italiani indossava la mascherina per proteggersi dal coronavirus SARS-CoV-2. | STATISTA

NON È VERO CHE FA MANCARE L’OSSIGENO.

Indossare una mascherina chirurgica non produce un’intossicazione da CO2, né causa deficit di ossigeno.

Basti pensare al personale medico, che da decenni indossa mascherine per diverse ore al giorno, senza soffrirne.

Un dottore irlandese, Maitiu O Tuathail, ha pubblicato su Twitter un video in cui dimostra che i livelli di saturazione di ossigeno nel sangue rimangono al 99% indossando non una, bensì sei mascherine contemporaneamente.

Quello che la OMS consiglia di non fare è indossare la mascherina mentre si fa sport: il sudore può inumidirla più velocemente, riducendo così la capacità di chi la indossa di respirare con normalità e favorendo la prolificazione di microrganismi.


Covid e mascherine 02

È fondamentale indossare correttamente la mascherina: ecco alcune semplici regole da seguire per utilizzare correttamente le mascherine chirurgiche e quelle in tessuto (clic sull’immagine per ingrandirla).

NON È VERO CHE SE NON SEI INFETTO, NON SERVE.

Uno studio condotto sul focolaio di Vo’ Euganeo (Padova) ha rilevato che il 40% degli infetti era asintomatico.

Un’altra ricerca suggerisce che oltre la metà dei casi di covid sarebbero causati da soggetti asintomatici e presintomatici.

Tutto questo significa che, anche se ci sentiamo bene, possiamo essere contagiati e contagiosi: da qui l’importanza di indossare tutti la mascherina, non solo gli infetti, proprio perché chiunque potrebbe essere inconsapevolmente infetto.

COVID E MASCHERINE: EGOISTI E ALTRUISTI.

Le mascherine chirurgiche, in particolare, non proteggono tanto chi le indossa ma gli altri, perché impediscono o riducono sensibilmente la dispersione delle goccioline della respirazione e perciò bloccano il virus che, se presente, da quelle goccioline è trasportato.

Il concetto è semplice: io indosso la mascherina per proteggere te, tu la indossi per proteggere me – e questo vale specialmente nei luoghi dove non è possibile garantire il corretto distanziamento.


CON PATOLOGIE CRONICHE SI FA PIÙ FATICA.

È vero, chi soffre di patologie respiratorie come asma e broncopatia con la mascherina fa più fatica a respirare, ma non è vero che indossarla peggiori la malattia!

Invece, indossarla e pretendere che le persone attorno la indossino è una garanzia: chi è affetto da malattie respiratorie dovrebbe essere il primo a volere che questa semplice misura protettiva sia sempre rispettata.

«Non immaginiamo cose che non esistono», afferma la dottoressa Jennifer Ashton dai microfoni del notiziario statunitense Good Morning America: «stiamo parlando di proteggere la vita delle persone.»


NON È VERO CHE LA MASCHERINA RENDE INVINCIBILI.

Questo è un piccolo paradosso: tra chi indossa la mascherina ci sono anche persone che, proprio per il fatto di averla, violano altre norme di sicurezza.

Indossare la mascherina non basta: l’OMS lo ripete dall’inizio della pandemia, quando sottolineava che utilizzare la mascherina avrebbe potuto “creare un falso senso di sicurezza e spingere a tralasciare altre misure essenziali”.

Il distanziamento sociale e l’igiene personale sono altrettanto fondamentali e la mascherina non deve darci l’illusione di essere protetti sempre e comunque.

Fonte: Focus.it

Anticorpi in campo contro la COVID-19

I più potenti anticorpi selezionati nei pazienti guariti potrebbero essere clonati e usati come trattamento contro la Covid-19: è la rivisitazione di una vecchi a tecnica.

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Il plasma dei convalescenti da COVID-19 si sta rivelando uno strumento prezioso nella lotta al coronavirus SARS-CoV-2

Usare, nella terapia di pazienti COVID-19, il plasma di chi è già guarito, è l’idea alla base di uno dei trattamenti sperimentali sui quali la ricerca – anche italiana – sta investendo.

Ma non tutti i pazienti convalescenti hanno sviluppato anticorpi ugualmente potenti: nel tentativo di rimodulare in chiave moderna questa terapia conosciuta dalla fine del XIX secolo, un gruppo di ricercatori del Rockefeller University Hospital di New York sta cercando di selezionare i più efficaci anticorpi neutralizzanti.

E’ la crème de la crème delle difese schierate dal sistema immunitario contro il coronavirus SARS-CoV-2.

L’obiettivo è arrivare a clonare queste proteine e utilizzarle contro la COVID-19, come cura o protezione.

L’AGO NEL PAGLIAIO.

Il progetto spiegato in un articolo su New Atlas è una sorta di caccia al tesoro a tempo: si tratta di individuare, tra i pazienti guariti da COVID-19, quelli che i medici chiamano “neutralizzatori d’élite”: una minoranza di persone che hanno combattuto l’infezione talmente bene da avere anticorpi sfruttabili come terapia.

Anche tra chi è guarito (abbiamo già affrontato il tema del post-guarigione) dalla COVID-19 è presente una grande variabilità nei livelli degli anticorpi neutralizzanti contro il SARS-CoV-2.

In alcune persone sono così bassi che il plasma (la parte liquida del sangue più ricca di proteine) è praticamente inattivo; in altri invece il plasma ha un effetto neutralizzante molto potente.

Una percentuale ancora più piccola di questa minoranza, pari forse al 5% dei donatori, presenta alti livelli di anticorpi neutralizzanti assai potenti.

E’ in questi campioni che si andrà a caccia degli anticorpi largamente neutralizzanti (bNABs), missili di precisione contro il virus che potrebbero essere clonati e somministrati sia come prevenzione per i lavoratori più a rischio, sia come terapia per i pazienti COVID.

UN APPROCCIO GIÀ NOTO.

Per isolare le cellule immunitarie che producono i bNAbs, i ricercatori introducono una proteina virale fluorescente nel campione di sangue.

Le cellule che producono i più potenti anticorpi abboccano all’amo e si mostrano.

La tecnica è stata già sfruttata per sviluppare anticorpi contro altre malattie infettive dal potenziale epidemico, come la malaria, l’influenza, l’epatite, Zika, ma soprattutto l’AIDS: sono in corso i primi trial per capire se un trattamento a base di anticorpi altamente neutralizzanti possa sopprimere il virus dell’HIV nei pazienti infetti, e i primi risultati sono incoraggianti.

A CHE PUNTO SIAMO?

Isolare e clonare gli anticorpi bNAbs contro la COVID-19 è un’operazione che si può compiere in pochi giorni.

Nel giro di un mese dovrebbe essere possibile ottenere le prime scorte dei più promettenti antibiotici da testare in trial clinici.

L’obiettivo è arrivare a un trattamento che possa contenere i danni nei mesi che ci separano da un vaccino efficace.

 

Fonte: Focus.it

Nuovo coronavirus: si è contagiosi anche dopo la guarigione?

Uno studio in Cina trova tracce di coronavirus nella gola di 4 pazienti guariti e dimessi. Se confermata, non sarebbe per forza una cattiva notizia.

test coronavirus

Fonte: Focus

Il virus SARS-CoV-2 potrebbe persistere nel corpo umano per settimane dopo la guarigione: è quanto ipotizzato da un ristretto studio cinese, svolto su 4 pazienti soltanto e pubblicato sulla rivista JAMA.

Se confermata su un campione più ampio, la riluttanza del nuovo coronavirus ad abbandonare l’organismo non sarebbe un fatto così strano.

Molti virus rimangono in quantità ridotte nel corpo infettato anche dopo la scomparsa dei sintomi, e in genere questi patogeni sono quelli che scatenano efficaci risposte immunitarie alla possibilità di una nuova infezione.

NEGATIVI. ANZI, NO

Per lo studio sono stati seguiti quattro operatori sanitari tra i 30 e i 36 anni contagiati dal nuovo coronavirus e curati all’Ospedale Universitario Zhongnan, a Wuhan, tra il 1 gennaio e il 15 febbraio.

Il ricovero ospedaliero si è reso necessario per un paziente soltanto; dopo le cure con antivirali, tutti sono guariti.

Con la scomparsa dei sintomi e due test negativi consecutivi, i quattro sono stati dimessi e invitati a una quarantena domestica di altri cinque giorni.

Come prassi, sono stati testati di nuovo per il coronavirus tra il quinto e il tredicesimo giorno post dimissioni: a sorpresa, tutti questi test di follow-up sono risultati positivi al virus.

Per i ricercatori, questo sembra suggerire che almeno una parte dei pazienti guariti dal COVID-19 resti per qualche tempo portatrice del virus.

Non sarebbe una novità: anche Ebola e Zika restano rintracciabili per mesi nell’organismo delle persone guarite.

I tamponi per il coronavirus cercano tracce genetiche del patogeno nel muco o nella saliva dei pazienti: poiché i quattro erano stati trattati con uno degli antivirali che si stanno testando contro l’infezione, l’oseltamivir, è possibile che al momento dei test pre-dimissioni il virus fosse presente in dosi talmente basse da passare inosservato.

LIEVE RIPRESA

Dopo la sospensione del trattamento, il virus potrebbe aver ricominciato a replicarsi in quantità minime, senza provocare nuovi sintomi ma risultando rintracciabile dai test.

Secondo gli autori dello studio, a quel punto i pazienti non erano particolarmente contagiosi, perché non tossivano e non starnutivano.

Essendo operatori sanitari, hanno osservato scrupolosamente le norme per prevenire la trasmissione del coronavirus, tanto che nessuno dei loro familiari è stato contagiato.

La trasmissione in circostanze come queste potrebbe comunque avvenire attraverso contatti più intimi, per esempio bevendo dallo stesso bicchiere.

UNA DIVERSA SITUAZIONE

I risultati aiutano a interpretare il caso di ricaduta di COVID-19 documentato in una paziente giapponese.

A differenza dei soggetti di questo studio, la donna ha avuto una recrudescenza di sintomi – forse in seguito a un nuovo contagio o, forse, perché il coronavirus è riuscito a moltiplicarsi in quantità tali da produrre nuovi danni alle vie respiratorie.

I virus che permangono a lungo nell’organismo sollecitano anche più decise risposte immunitarie: il nostro organismo rimane immune ai coronavirus del raffreddore per uno o due anni, a meno che non si ripresentino in seguito in forma mutata.