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Pneumotorace

Con il termine di pneumotorace si definisce una patologia toracica dov’è coinvolto il polmone, la pleura e la parete toracica.

Nel pneumotorace si viene a creare una spazio anomalo gassoso, o meglio di aria, nello zona tra il polmone e la parete toracica, ovvero nel cavo pleurico.

Pneumotorace 01Anatomia nel pneumotorace

Il cavo pleurico è lo spazio esistente tra la pleura viscerale e la pleura parietale.

La pleura è una membrana di tipo sierosa che si ripiega su se stessa, formando per l’appunto lo spazio del cavo pleurico, contenente del liquido, necessario per favorire lo scorrimento delle due membrane, senza generare attriti.

Pneumotorace 02La pleura viscerale è interna ed è adesa al polmone e ai suoi annessi; non ha innervazione sensitiva nocicettiva.

La pleura parietale è esterna ed è adesa alla parete toracica; è ben innervata dalle fibre nocicettive e pertanto è molto sensibile agli stimoli dolorosi.

L’aria che si forma in maniera anomala nella cavità pleurica, comprime il polmone e ne impedisce la corretta espansione, con una conseguente riduzione della funzionalità polmonare.

Sintomatologia

I sintomi che si associano al pneumotorace possono variare a seconda dell’entità con cui si presenta la patologia.

Nelle forme lievi, i sintomi possono essere sfumati o a dir poco vaghi, mentre ne casi più gravi le manifestazioni cliniche possono avere varie sfaccettature:

  • dispnea (respirazione faticosa)
  • ipossia (riduzione dell’ossigenazione)
  • parestesie e manifestazioni cianotiche periferiche
  • affaticamento
  • tachicardia
  • spossatezza
  • dolore e/o oppressione toracica
  • dolore interscapolare
  • dolore all’inspirazione e nell’espirazione profonda
  • sensazione di crepitio nell’atto inspiratorio.

CauseCom’è comprensibile, molte di queste manifestazioni possono richiedere il ricovero del paziente per assistenza primaria ospedaliera, scongiurandone il precipitare delle condizioni cliniche e stabilizzandolo nelle funzioni primarie.

Come precedentemente detto, il pneumotorace si manifesta quando si crea una bolla di aria tra la pleura viscerale e quella parietale, ovvero nel cavo pleurico, generando una pressione anomala, non più negativa, che fa collassare il polmone su se stesso, pertanto proprio l’aria penetrata nella cavità pleurica, ostacola l’adesione del polmone alle pareti interne del torace riducendone la capacità di espansione.

Classificazione del pneumotorace

Il pneumotorace viene catalogato in 3 forme principali:

  • spontaneo

Compare improvvisamente in forma primaria, vale a dire senza problematiche polmonari di base, o secondaria, per la presenza di patologie polmonari persistenti, che minano la salute del polmone e dei suoi tessuti contigui.

Tra le patologie secondarie sono di grande incidenza l’asma acuta, l’enfisema polmonare, la broncopneumopatia cronico ostruttiva, la pertosse, le infezioni polmonari, la fibrosi polmonare, la fibrosi cistica, il tabagismo.

  • traumatici

Causato da lesioni toraciche esterne, che ledono l’integrità sia della gabba toracica sia del polmone stesso, oppure da fratture costali, che se scomposte, possono danneggiare l’integrità del cavo pleurico per via dello steso moncone di frattura.

Nel pneumotorace di tipo traumatico, è molto alta la probabilità che si possa associare un emo-pneumotorce, per la presenza di sangue associato alla bolla gassosa.

  • iatrogeno

Secondario in maniera diretta o indiretta ad intervento preventivo, diagnostico o terapeutico, come ad esempio nelle biopsie pleuriche, durante l’esecuzione di ago aspirato trans toracico e similari.

Diagnosi del pneumotorace

Nella diagnosi del pneumotorace purtroppo l’insieme dei segni e dei sintomi possono non essere sufficienti, perché rientrano in un quadro diagnostico differenziale con altre numerose patologie polmonari e bronchiali.

Pneumotorace 04Vero è che soprattutto nel pneumotorace spontaneo e in quelle secondario, l’anamnesi può indirizzare ad un’ipotesi diagnostica, ma sarà comunque sempre necessario supportare il sospetto di pneumotorace, tramite le indagini diagnostiche quali TC ed RX, capaci di evidenziare la presenza dell’eventuale collasso polmonare.

Più facile è ipotizzare la diagnosi di pneumotorace nelle categorie traumatiche, ma anche in questo caso la conferma può essere data solamente per mezzo delle indagini diagnostiche sopra citate.

Trattamento

Il trattamento del pneumotorace prevede la riduzione della pressione gassosa che comprime il polmone, potendo in tal modo favorirne la riespansione.

Se il pneumotorace si manifesta in maniera asintomatica, senza danni di funzione associati e lesioni al polmone, generalmente tende a risolversi in maniera autonoma nell’arco di 10-15 giorni, favorendo la strategia di una scelta conservativa, senza ovvero intervenire, ma monitorando il paziente sia nelle condizioni cliniche, che in quelle anatomopatologiche.

Pneumotorace 05Nelle situazioni in cui il pneumotorace dia sintomatologia associata ad un collasso importante, che lede la funzione di organo stesso, si procede al drenaggio toracico, dove viene aspirata la bolla gassosa nello spazio pleurico, creando un vuoto pleurico mantenuto costante, da alcune ore fino ad alcuni giorni, a seconda della gravità del collasso polmonare.

Se il drenaggio toracico non dovesse dare effetto, si può optare per l’intervento chirurgico, dove si hanno due strategie:

  • la pleurodesi, per favorire l’adesione del polmone alla parete toracica
  • la pleurectomia, dove viene eliminata per asportazione, una porzione della pleura parietale.

Pneumotorace 06L’intervento chirurgico può diventare anche una strategia di cura nel momento in cui il paziente dovesse subire recidive ricorrenti.

E’ importante che il paziente, una volta stabilizzato il pneumotorace e riportato ad una condizione di optimum clinico, intraprenda un percorso di terapia riabilitativa, per ottimizzare il recupero delle funzioni polmonari e toraciche, con l’intento di migliorare al massimo le performance respiratorie e di ridurre drasticamente il rischio di recidive.

 

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Aracnoidite

Con il termine di aracnoidite si descrive uno stato di infiammazione del tessuto aracnoideo che avvolge le strutture neurologiche quali il cervello e il midollo spinale.

aracnoidite infiammazioneAnatomia

L’aracnoide è una struttura che fa parte delle meningi e si interpone tra altri due foglietti meningei, individuati nella dura madre e nella pia madre.

L’aracnoide e la pia madre sono tra loro in stretta relazione perché connesse tramite tessuto connettivo e per tale motivo possono essere chiamate in maniera unitaria con il nome di leptomeningi.

L’aracnoide e con essa il sistema dei foglietti meningei, tappezzano la parte interna tanto della scatola cranica, tanto del canale vertebrale.

Tra l’aracnoide e la pia madre si crea uno spazio, chiamato spazio subaracnoideo, dove vi è contenuto il liquido cefalo-rachideo.

L’aracnoide è formata da tessuto connettivo fibroso ricco di collagene ed elastina ed è scarsamente vascolarizzata ed innervata.

aracnoidite anatomiaL’aracnoidite è una patologia con tendenza alla cronicizzazione; non se ne ha un’origine eziologica sufficientemente chiara e proprio per questo è difficile associarne una cura mirata.

Sono pochi i casi in cui l’aracnoidite coinvolge la porzione cerebrale e midollare; nella stragrande maggioranza delle volte la porzione maggiormente interessata è la radice spinale nel tratto intravertebrale/foraminale.

L’aracnoidite si forma per delle risposte infiammatorie che scatenano reazioni edematose nelle radici spinali, le quali possono evolvere se non bloccate per tempo, in un’alterazione del tessuto radicolare stesso, apportando danni alle cellule e mutandone le loro conformazioni.

L’aracnoidite può addirittura ostacolare la normale circolazione del liquido cefalo-rachideo, causando dolori vertebrali e cefalee.

L’aracnoidite adesiva è la forma più complessa, può avere un’ulteriore evoluzione nell’aracnoidite ossificante, mettendo il paziente a rischio di gravi disabilità.

ARACNOIDITE 2I sintomi della aracnoidite

I sintomi sono legati alla formazione di tessuto cicatriziale e di aderenze secondarie, che possono sfociare in forme sopra accennate di aracnoiditi adesive, a carico dei nervi contenuti nel canale vertebrale.

Questo comporta la comparsa di nevriti irritative/compressive e ancor peggio di deficit neurologici.

Tra i sintomi neurologici legati alla sensibilità, troviamo la comparsa di parestesie, sensazione di caldo, di freddo, formicolii, dolore pungente, dolore urente, percezioni vibratorie cutanee superficiali e profonde.

A livello motorio, il paziente può lamentare alterazioni del tono
muscolare, con riduzione della forza e della resistenza alla richiesta di contrazione di un muscolo specifico o di una catena muscolare, finanche ad arrivare ad un danno di funzione del sistema propriocettivo di controllo e coordinamento.

aracnoidite 3Possono manifestarsi delle contratture antalgiche riflesse e delle alterazione nella risposta dei R.O.T (riflessi osteo- tendinei).

Il tutto si traduce in una difficoltà nel compiere gesti banali di attività quotidiana, arrivando persino a non riuscire a mantenere un corretto assetto vertebrale nelle posture erette e sedute.

Se l’aracnoidite coinvolge non solamente le strutture
neurologiche radicolari ma anche il midollo vertebrale, si possono manifestare delle disfunzioni gravi dei sistemi viscerali di funzionamento, perdendo la funzione di equilibrio dei sistemi attivanti e di controllo neurovegetativi, comportando dei non feedback nei riflessi corti viscerali e in quelli viscero somatici.

Le cause

causeLe cause che possono portare all’aracnoidite non sono ben chiare, in alcuni casi si può affermare che l’eziologia è sconosciuta e possono variare con una multifattorialità che spazia da:

  • reazioni avverse all’introduzione erronea di farmaci per via diretta, anziché nello spazio epidurale, alla porzione più intima delle leptomeningi
  • nella somministrazione di mezzi di contrasto come nella mielografia
  • alla presenza di virus e batteri, introdotti attraverso il circolo ematico o in ambienti non perfettamente sterili durante interventi di chirurgia vertebrale
    come conseguenza di ernie discali cronicizzate e dal nucleo erniato disidratato e indurito
  • come conseguenza della stenotizzazione del canale vertebrale, soprattutto se a carico dei tessuti molli anziché osteo-articolari
    per la presenza di emorragie non tempestivamente tamponate e drenante.

Diagnosi della aracnoidite

aracnoidite anamnesiPer diagnosticare l’aracnoidite è fondamentale procedere con un’attenta anamnesi, capace di individuare la storia clinica del paziente, inquadrandola sia sotto un aspetto sintomatologico e sia nello storico di eventi patologici, di cure e somministrazioni farmacologiche effettuate e di eventuali interventi chirurgici subiti.

I test clinici saranno di grande importanza per evidenziare segni di nevrite periferica o centrale, in relazione ai movimenti indotti e richiesti ed ai riflessi condizionati stimolati.

L’elettroneurografia può essere un esame di valido supporto nel rilevare sindromi neurologiche periferiche irritative.

Nel caso si voglia valutare la presenza di ossificazioni aracnoidee, l’esame maggiormente indicato sarà la TC, perché è in grado di studiare con maggior attenzione la presenza di calcificazioni e/o addensamenti sensibili alle radiazioni.

L’RM con contrasto può essere un supporto diagnostico importante nello studio del segmento vertebrale in rapporto ai tessuti neurologici contenuti.

Come trattare l’aracnoidite

ChirurgiaIl trattamento dell’aracnoidite non ha ad oggi un protocollo terapeutico comprovato, pertanto si tende ad assistere il paziente riducendo i sintomi, recuperando ed ottimizzando le funzioni residue nelle attività di vita quotidiana, lavorando sulla propriocettività e sull’adattamento posturale.

Diventa importante studiare degli ausili che possano concorre nell’efficienza del paziente allo svolgere delle proprie attività, senza incrementare i sintomi caratteristici della patologia.

L’intervento chirurgico di disimbrigliamento del sistema nervoso coinvolto nell’aracnoidite, non sempre è possibile e qualora sia applicabile, non assicura un miglioramento stabile nel tempo.

L’aracnoidite è una patologia importante che può arrecare danni considerevoli alla salute del paziente, proprio per questo all’insorgere dei primi sintomi ci si deve rivolgere allo specialista di riferimento, per bloccare il processo infiammatorio ed edematoso.

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Cruralgia

La cruralgia è un dolore che si presenta nella zona cutanea anteriore / mediale della coscia e della gamba e nella zona cutanea dorsale / mediale del piede.

La cruralgia

Cruralgia 01Può causare dei deficit muscolari al compartimento anteriore della coscia, ai muscoli adduttori (m. adduttore lungo), e al muscolo ileopsoas.

La sintomatologia è dovuta all’irritazione del nervo crurale che innerva la zona cutanea e le strutture muscolari sopra indicate.

La sintomatologia può estendersi sull’intero territorio indicato, oppure in maniera tronca  su una zona specifica, a seconda della causa di irritazione e della gravità in essere della patologia.

Il nervo crurale fa parte del plesso nervoso del tratto lombare; si crea dalle unioni di più radici nervose L2-L3-L4 ed ha, come avete già capito, una funzione tanto sensitiva, quanto motoria.

Ma cosa può causare la cruralgia?

I fattori patologici sono molti, di natura diversa e possono incidere all’origine del nervo, all’uscita del nervo dalla vertebra, oppure nel tragitto lungo il suo decorso.

Cruralgia 02Esaminiamoli insieme:

  • ernia discale
  • edema
  • artrosi
  • osteofiti
  • esostosi
  • chiusura dei forami di coniugazione
  • fratture vertebrali (osteoporosi o trauma)
  • riduzione dello spazio intervertebrale
  • stenosi del canale midollare
  • infezioni batterico/virali
  • infiammazioni metaboliche
  • ipossia/anossia arteriosa del nervo
  • aderenze addominali
  • visceroptosi

I fattori citati, scatenanti la cruralgia, variano nel circolo vizioso patologico che turna tra la compressione, i punti di restrizione e irritazione nello scorrimento del nervo durante il movimento o nelle posture degli adattamenti in posizione eretta, seduta o sdraiata, nella riduzione di vascolarizzazione arteriosa, nella stasi locale della circolazione venosa.

Un discorso a parte meritano i fattori metabolici e infettivi, che scatenano un’infiammazione locale sul nervo per cause inerenti a situazioni che coinvolgono e minano la salute del paziente in maniera sistemica.

I sintomi della cruralgia sono diversi per intensità, per territorio di sviluppo, per caratteristiche motorie, sensitive o miste.

Cruralgia 03Come accennavo all’inizio dell’articolo, il dolore può manifestarsi nella zona cutanea anteriore / mediale della coscia e della gamba e nella zona cutanea dorsale / mediale del piede.

Può causare dei deficit muscolari al compartimento muscolare anteriore della coscia, ai muscoli adduttori (m.adduttore lungo), e al muscolo ileopsoas.

Il dolore

Nel caso in cui si associ anche un dolore lombare, generalmente localizzato nello stesso emilato della cruralgia e in maniera irradiata verso il decorso del nervo crurale, possiamo parlare di lombocruralgia.

Il dolore, l’intorpidimento, il formicolio, il bruciore, la debolezza o l’atrofia muscolare, la riduzione o la perdita dei riflessi osteotendinei,  possono comparire in maniera lenta e progressiva, oppure svilupparsi in maniera improvvisa, possono avere un andamento acuto oppure cronico, costante o incostante.

Le varianti sintomatiche saranno dovute alla causa che da vita alla cruralgia e possono presentarsi in maniera singola o multipla.

Cruralgia 04In basse alla gravità della sintomatologia, il paziente può associare un’alterazione della postura, che risulterà deviata per sfuggire al carico e all’accentuarsi dei sintomi sensitivi e/o motori.

Può risultare difficoltoso mantenere la posizione seduta per periodi prolungati.

Molti pazienti lamentano anche un disagio nel trovare una posizione sdraiata che permetta loro di riposare bene e senza disturbi.

Spesso l’impedimento motorio e l’esacerbazione parestetica, si acuisce nei cambi di posizione da sdraiato a seduto e da seduto a in piedi.

Possiamo quindi dire che la cruralgia, può manifestarsi tanto durante il movimento quanto in posizione statica o addirittura di riposo.

Come si diagnostica una cruralgia?

Nella diagnosi è fondamentale fare una buona anamnesi per capire la modalità di insorgenza della patologia e le possibili cause che l’abbiano sviluppata.

A seguire è necessario un esame obiettivo, dove le manovre adoperate sul paziente verificheranno la presenza delle condizioni patologiche alla stimolazione delle cause sospette.

TC ColonnaPotrà rendersi necessario accompagnare l’anamnesi e l’esame obiettivo con esami diagnostici strumentali quali:

  • rx
  • rm
  • tc
  • elettromiografia
  • ecodoppler

Queste indagini possono visualizzare e contestualizzare lo stato di salute del paziente in base allo stato anatomico vertebrale, dei propri tessuti molli, dei vasi arterio-venosi di competenza, delle strutture discali e radicolari del segmento in questione.

Fino ad analizzare lo stato di innervazione delle placche motrici del nero femorale, lungo il suo percorso di innervazione.

La terapia

La terapia può essere studiata e applicata a largo raggio.

Bisogna cercare di rimuovere la causa della patologia o di minimizzarne al massimo gli effetti patologici che ne conseguono, non perdendo di vista la riduzione in tempi brevi della sintomatologia, per evitare una reazione a catena di compensi multisistemici.

Pertanto la cruralgia potrà essere approcciata con via farmacologica, tramite antinfiammatori (fans o cortisonici), miorilassanti, antidolorifici o terapie infiltrative di ozono.

FisioterapiaA livello fisioterapico l’approccio varia da una ricorrezione posturale, ad un riequilibrio delle catene muscolari, ad un ripristino della normale fisiologia vertebro-discale, ad un disimbrigliamento del nervo sia sull’uscita della radice nervosa che lungo il suo percorso di appartenenza.

Sarà in grado anche di ridurre l’infiammazione, lo stato di contrattura muscolare e di ricondizionare la funzione neurologica di trasmissioni nocicettive e motorie.

In campo chirurgico ci sarà la necessità di intervenire nel caso sia presente un’ernia discale compressiva sulla radice nervosa, che non riesca ad essere affrontata in maniera efficace a livello farmacologico e fisioterapico.

Cosi come sarà necessario l’intervento chirurgico in caso di stenosi vertebrale, che mantenga uno stato di patologia stabilmente sintomatologico.

La cruraligia è una patologia che può inefficiare la qualità di vita e le attività quotidiane, ma fortunatamente abbiamo la possibilità di fare una diagnosi precisa e applicare una serie di terapie capaci di risolvere il problema in maniera fruttuosa e stabile.

E’ importante rivolgersi al professionista sanitario competente, che sappia capire i sintomi del paziente, che sappia fare una diagnosi precisa e accurata, per poter trovare la miglior strategia di cura nella risoluzione del problema.

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Osteonecrosi e Infarto Osseo

Osteonecrosi e Infarto Osseo 01L’infarto osseo e l’osteonecrosi sono due condizioni sequenziali strettamente correlate tra di loro, ovvero l’infarto osseo conduce all’osteonecrosi.

Ma cos’è l’infarto osseo?

E’ una condizione di forte riduzione della vascolarizzazione del tessuto osseo, che può comparire sia nella porzione di osso trasecolare, sia nella parte di giunzione periostale.

Lo stato di ipossia cellulare prolungata, o di violenta anossia, porta ad una necrosi della massa ossea (osteonecrosi), più o meno estesa a seconda dell’area coinvolta dalla lesione vascolare.

L’area ossea che ha subito la morte cellulare va successivamente incontro ad un processo di guarigione e di riparazione, il quale non sempre riesce a portare a termine il suo percorso, perché se subisce un considerevole carico statico e/o dinamico, rischia il collasso della struttura e la deformità ossea, prima che il processo ripartivo abbia portato a compimento il suo processo.

Osteonecrosi e Infarto Osseo 02Ovviamente tale discorso diventa più o meno grave a seconda dell’estensione dell’area necrotica.

Generalmente l’osteonecrosi coinvolge la parte estrema delle ossa lunghe, interessando spesso anche le cartilagini di rivestimento dei capi articolari, le quali subiranno delle deformazioni per il cedimento della porzione ossea sottostante.

Le ossa maggiormente colpite sono in ordine di percentuale:

  • il femore nella porzione prossimale della testa del femore
  • il ginocchio nella porzione prossimale della tibia e quindi del piatto tibiale
  • la testa dell’omero
  • l’articolazione del polso
  • l’articolazione della caviglia.

Nelle prime fasi della lesione vascolare, l’infarto osseo può rimanere silente, se limitato ad un porzione ossea di minute dimensioni, oppure se l’area interessata, seppur vasta, mantiene la capacità di resistere ai carichi compressivi.

Il dolore

Osteonecrosi e Infarto Osseo 03Nel momento in cui l’osso collassa e si deforma, il dolore si manifesta sia localmente, per l’interessamento della porzione periostale largamente innervata e sia per il manifestarsi di un’impotenza funzionale articolare, associata ad una reazione muscolare di tipo antalgica riflessa.

In questo caso il dolore aumenta nella posizione eretta e durante il carico dinamico, mentre diminuisce a riposo e in posizione di scarico.

Differente sarà il discorso per le articolazioni dell’arto superiore come la spalla e il gomito, dove il dolore si acuisce maggiormente durante il movimento e la presa di oggetti con la mano, soprattutto se pesanti e con il braccio lontano dal corpo.

Anche nelle posizioni supine di scarico, il dolore articolare può essere presente se la patologia ha innescato un processo secondario di sinovite periarticolare, con un gonfiore che peggiora con la riduzione del drenaggio autonomo al movimento.

Le cause

CauseLe cause dell’infarto osseo e della conseguente osteonecrosi, sono da imputare principalmente ad una condizione di anomalia vascolare specifica o multifattoriale, che possa ridurre l’apporto di sangue ossigenato e del materiale di nutrimento al tessuto irrorato.

Sono molti gli eventi, le patologie e i dismetabolismi, che possono portare a tale condizione, pertanto dividiamo in due macro categorie le eziologie necrotizzanti:

  • le osteonecrosi traumatiche, dovute ad eventi estremi, che comportano la frattura o la lussazione di quelle strutture ossee che hanno una circolazione terminale, o con una ridotto circolo anastomotico collaterale, come nella testa del femore o nell’osso scafoideo del polso; è da queste situazioni che l’evento traumatico rischia di danneggiare gravemente anche il corretto apporto vascolare osseo, sviluppando una necrosi ossea
  • le osteonecrosi non traumatiche, dovute a fattori che possono inefficace il sistema di nutrimento osseo in maniera singola o multifattoriale.

Tra le varie cause troviamo: l’abuso di alcol, l’abuso di fumo di sigaretta, l’utilizzo eccessivo e prolungato di corticosteroidi, malattie autoimmunitarie che coinvolgono il tessuto connettivo e vascolare, alterazioni patologiche della coagulazione del sangue, postumi di terapie radianti e chemioterapiche, patologie dismetaboliche epatiche, pancreatiche, renali, fino ad arrivare alle patologie da decompressioni.

L’osteonecrosi di origine non traumatica ha una percentuale di sviluppo bilaterale pari al 60%, con un’incidenza maggiore a carico del femore, nella porzione prossimale articolare dell’anca.

La diagnosi

Osteonecrosi e Infarto Osseo 04Per diagnosticare la necrosi ossea, soprattutto dopo aver subito un evento traumatico fratturativo o dislocante, oppure in tutte quei pazienti che in un quadro anamnestico, riportano condizioni cliniche e/o terapeutiche sospette all’evoluzione dell’infarto osseo, è assolutamente necessario avvalersi di indagini diagnostiche quali RX, RM, TC, capaci di individuare alterazioni areolari della matrice ossea contenute in minima quantità, oppure alterazioni sclerotiche della porzione di passaggio periostale/trabecolare, associate ad edema intraspongioso e nei casi più gravi accompagnate da un’alterazione della naturale conformazione perimetrica, come conseguenza del collasso strutturale osseo, capace di evolvere fino allo sviluppo di vere e proprie fratture.

Se la necrosi è associata a patologie autoimmunitarie del tessuto connettivo, sarà facile riscontrare un’alterazione della capsula articolare, con un aumento del contenuto liquido di tipo infiammatorio.

Il trattamento

Il trattamento dell’osteonecrosi prevede l’utilizzo di una strada conservativa e di una chirurgica.

La strada conservativa tende a diminuire il dolore, il quale se acuto e persistente, ha tra i vari effetti collaterali, quello di ridurre l’afflusso vascolare arterioso per effetto riflesso del sistema neurovegetativo.

Nelle localizzazioni associate agli arti inferiori, si tende a ridurre il carico statico e dinamico per evitare la deformazione ossea, fino alla ripresa inoltrata del processo ripartivo.

Risultano essere utili anche i percorsi fisioterapici con elettromedicali e senza, per stimolare la biologia cellulare ossea, mantenendo il trofismo muscolare capace di coadiuvare la corretta disposizione cellulare osteoblastica rigenerativa.

FarmaciOvviamente andranno eliminati o fortemente contenuti ove possibile, l’utilizzo di terapie con corticosteroidi ad ampio dosaggio e per periodi prolungati.

Anche le abitudini di vita vanno curate riducendo drasticamente l’utilizzo di alcol e del fumo di sigaretta.

A livello farmacologico la somministrazione dei bifosfonati, può accelerare il processo di guarigione.

Nel caso in cui l’osteonecrosi abbia avuto un’evoluzione importante su vasta scala e la regressione ne risulta da principio insperata, si può procedere con un trattamento chirurgico.

La chirurgia può adottare varie strade che variano dalla decompressione centrale chirurgica semplice, alla decompressione centrale con innesto osseo vascolarizzato e non.

Questa tecnica si effettua con delle incisioni o con delle perforazioni, che hanno il compito di stimolare la rigenerazione cellulare nel contesto di una riduzione della pressione intraossea.

Viene utilizzata nelle ossa lunghe quando l’area necrotizzata ha una superficie ridotta, oppure nelle ossa corte.

E’ una metodica che offre delle ottime risposte ed un rischio contenuto, ma necessita l’attenzione di mantenere uno scarico decrescente statico e/o dinamico per circa 30-45 giorni.

ChirurgiaUn’altra strada utilizzata nell’approccio chirurgico è quella di attuare un’osteotomia con innesto osseo, concettualmente simile alla precedente ma più complessa nell’esecuzione.

Viene utilizzata quando l’area osteonocretica è vasta e sulle ossa lunghe.

Anche in questo caso sarà necessario far osservare al paziente, un periodo di scarico decrescente statico e/o dinamico, che può prolungarsi fino a 180 giorni circa.

Quando il danno anatomico è particolarmente grave, tanto da aver portato ad un collasso dell’osso stesso e conseguentemente ad un cambio di morfologia della struttura ossea ed articolare, la strada con i maggiori risultati è quella della protesizzazione, ovvero della sostituzione dell’intera articolazione con una artificiale dalle caratteristiche compatibili.

In questo caso la ripresa è diversa in base al tipo di protesi utilizzata in relazione all’articolazione danneggiata.

Osteonecrosi e Infarto Osseo terapiaIn ogni caso, indipendentemente dal tipo di intervento programmato, sarà necessario osservare un periodo di riabilitazione mirato alla riduzione del dolore, dell’eventuale edema post chirurgico, al ricondizionamento della cicatrice associata ad eventuali aderenze e al recupero dell’articolarità.

Osteonecrosi e Infarto Osseo esrciziIn seconda battuta sarà necessario ottimizzare il tono-trofismo articolare e il recupero della propriocettività posizionale e dinamica.

L’infarto osseo e la conseguente osteonecrosi, è una condizione patologica subdola che sintomaticamente può manifestarsi anche a distanza di mesi dall’evento scatenate.

È una condizione che può portare ad un precipitare di conseguenze causa/effetto altamente destabilizzanti e disabilitanti, pertanto è assolutamente consigliato procedere con attenzione, affidandosi allo specialista del caso.

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Sindrome di Osgood Schlatter

La sindrome di Osgood Schlatter è una patologia che riguarda i giovani in età pre-adolescenziale e adolescenziale.

Osgood_Schlatter_01Manifestazione della sindrome di Osgood Schlatter

Si manifesta con una degenerazione a livello della tuberosità tibiale, nel punto di aggancio del tendine rotuleo, manifestando dolore e riduzione della capacità funzionale e motoria.

Vediamo di spiegarla in maniera più semplice.

Nell’età dell’accrescimento le strutture ossee sono soggette a modificazioni per permettere lo sviluppo dello scheletro che deve andare di pari passo con quello del resto del corpo.

Osgood_Schlatter_02Le cartilagini di accrescimento guidano la crescita dello scheletro, queste sono dei segmenti specifici dove l’astuccio osseo (periostio) è interrotto e infarcito di cartilagine, per dare la possibilità programmata dalla genetica e dai fattori ambientali, di seguire delle linee precise di sviluppo.

Molte di queste cartilagini di accrescimento ospitano punti di aggancio tendinei, legamentosi o entrambi, subendo forze di trazione o compressione.

Può succedere che le tensioni sviluppate nella zona delle cartilagini di accrescimento siano eccessive, tanto da creare delle perturbazioni nella vitalità del tessuto cellulare generando infiammazione e degenerazione.

Nel morbo di Osgood Schlatter succede esattamente questo, ovvero la tensione sviluppata dal tendine rotuleo, trazionato dal muscolo quadricipite, sull’aggancio della tuberosità tibiale, diventa eccessiva se sottoposta a carichi ripetuti ed e sovradosati, tanto da non essere sopportati dalla resistenza delle cellule periostali e cartilaginee che le devono subire.

Osgood_Schlatter_03Da qui si sviluppa una degenerazione locale associata spesso ad un’infiammazione della giunzione osteo-tendinea.

La struttura ossea prende un aspetto sfrangiato e disomogeneo causando la perdita di compattezza del tessuto stesso.

La tuberosità tibiale pertanto tenterà di reagire modificando la propria consistenza e creando uno spuntone osseo sovra dimensionato, come se volesse avvicinarsi alla zona di origine dei carichi per diminuirne la tensione compensandola.

Soggetti interessati dalla sindrome di Osgood Schlatter

L’epidemiologia vede maggiormente colpiti gli adolescenti in fase di accrescimento con un’età critica tra i 10 e i 15 anni.

La popolazione maschile è maggiormente interessata alla patologia rispetto a quella femminile.

Spesso la patologia si manifesta in maniera bilaterale, quasi mai contemporaneamente.

L’insorgenza del morbo di Osgood Schlatter è favorito sicuramente da una predisposizione genetica, ma anche e soprattutto da attività fisiche che vedono un impegno importante delle masse muscolari quadricipitali, dove le accelerazioni e le decelerazioni facciano parte del corredo di gioco e i saltelli siano li a completare le caratteristiche di allenamento.

Osgood_Schlatter_04La diagnosi

La diagnosi vede l’uso di varie metodiche:

  • rx
  • esame ecografico
  • rm

L’RX ci da la possibilità di valutare le alterazioni della tuberosità tibiale nel momento in cui la patologia ha già fatto il suo effetto sulle cellule ossee modificandone il profilo e la consistenza.

L’esame ecografico ci permette di valutare l’insorgenza della malattia nel momento in cui viene intaccata la cartilagine di accrescimento e quindi di accorgersi dell’insorgenza dello stadio primario dell’alterazione patologica tessutale.

La RM valuta lo stato in essere del tendine rotuleo nel momento in cui ci sia un’infiammazione ed eventualmente un edema associato, nella zona di inserzione ossea.

La diagnostica per immagini ovviamente deve essere di supporto all’ esame clinico e raccolta dati, rispetto alla situazione che ci si propone al momento della visita.

Osgood_Schlatter_05Evoluzione e trattamento della sindrome di Osgood Schlatter

La patologia tende a risolversi spontaneamente con la fine del picco di accrescimento osseo, che orientativamente avviene intorno ai 16 anni nei ragazzi e ai 14 anni nelle ragazze, è vero però che nel frattempo vengono utilizzati approcci mirati a ridurre al minimo la presenza della patologia.

Verrà rispettato un periodo di riposo dall’attività sportiva evitando di mettere in stress il ginocchio tramite la contrazione muscolare esponenziale del quadricipite.

Nei casi maggiormente acuti viene utilizzato lo scarico dell’arto tramite l’ausilio delle stampelle.

L’utilizzo del ghiaccio è proposto come antinfiammatorio naturale ripetendolo più volte al giorno, con l’intento di freddare la parte senza mai arrivare al congelamento, per evitare l’ effetto vascolare opposto.

Il piano terapeutico fisioterapico prevede l’allungamento delle masse muscolari anteriori e il loro riequilibrio rispetto ai gruppi posteriori per migliorare la sinergia contrattile dell’arto inferiore.

Osgood_Schlatter_06Verranno fatti anche esercizi minimi di rinforzo muscolare in isometrica, ovvero senza attivare l’articolarità del ginocchio, per mantenere un tono basale del quadricipite e un trofismo adeguato , in modo tale che nel momento in cui verrà autorizzato la ripresa al pieno carico, il peso e la cinetica deambulatoria non gravi completamente sull’articolazione e sulla tuberosità tibiale.

Il piano terapeutico osteopatico invece verterà sul ricercare il miglior assetto dei fulcri articolari che possano compensare il lavoro del ginocchio, verrà pertanto riequilibrato il bacino, le anche e l’appoggio in scarico dei piedi per garantire un appoggio confortevole richiedendo il minimo sforzo.

Verrà messa in campo una terapia che migliori il metabolismo dei tessuti ed elimini le tossine infiammatorie che infarciscono il tessuto osseo e quello tendineo nel loro punto di giunzione.

Verrà cercato il miglior bilanciamento legamentoso e del tessuto connettivo fasciale, in maniera da ridurre al minimo le forze di tensione che possano condizionare lo stato di tensione muscolare.

Nelle terapie farmacologiche è previsto l’utilizzo di farmaci antinfiammatori e antidolorifici pensando ad una posologia che sia sostenibile da un bambino-adolescente.

Osgood_Schlatter_07Non è da sottovalutare l’utilizzo di un tutore che preservi il tendine rotuleo dai carichi statici e dinamici nel rapporto osseo di inserzione sulla tuberosità tibiale.

Nei casi più gravi e resistenti si può arrivare al trattamento chirurgico, dove la tuberosità tibiale verrà rimodellata e pulita dalle alterazioni ossee sviluppate dall’evoluzione patologica.

Nel momento in cui la patologia venisse sottovalutata e non arginata si potrebbe arrivare alla frattura del terzo superiore della tibia per indebolimento dell’osso stesso.

Il morbo di Osgood Schlatter è sicuramente difficile da vivere in un’età giovanile, perché limita le attività ricreative e mette il soggetto in una condizione di dolore quasi costante, ma se fatta una buona diagnosi precoce e accertato lo stadio evolutivo patologico, può guarire senza lasciare alcuna conseguenza futura.

Lasciamo che i nostri figli vivano questa patologia come una pausa di riposo, dove forzare i tempi di rientro non produce nessun effetto benevolo, anzi rischia di cronicizzare i sintomi già esistenti.

Una pausa imposta può esser sfruttata facendo aumentare il desiderio di rientrare nel proprio mondo di fisicità e sport.

Contratture, crampi, stiramenti e strappi muscolari

Ne sentiamo parlare molte volte quando si riferiscono ad atleti professionisti. Altre volte ne siamo coinvolti in prima persona ma non sappiamo distinguere tra contratture, crampi, stiramenti e strappi muscolari.

Partiamo dal capire le differenze.

Contrattura

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La muscolatura volontaria ha una struttura caratterizzata da varie sottoclassi di fibre che hanno la capacita di legarsi e di scorrere tra di loro mediante dei legami proteici e degli attivatori-inibitori.

E’ un equilibrio molto complesso che risente del contesto biologico nel quale è inserito, oltre che alle sollecitazioni esterne applicate nella quotidianità.

02

La contrattura muscolare si presenta quando alcune fibre muscolari si contraggono ma non hanno la possibilità di ritornare ad uno stato di rilascio.

I protagonisti di questa disfunzione sono gli ioni calcio relazionati alla troponina (complesso proteico ad alto peso molecolare) e la migrazione degli ioni stessi nel reticolo sarcoplasmatico (sistema di tubuli che circondano le miofibrille delle fibra muscolare) dopo la contrazione.

03

Le cause di base sono situazioni di ischemia (totale o parziale assenza di afflusso di sangue in un tessuto o in organo) locale e/o di ipossia (in questo caso una carenza di ossigeno localizzata) associata ad una acidificazione del tessuto.

La contrattura cambia di importanza a seconda del numero di fibre che sono coinvolte; il muscolo ha la possibilità di compensare per la restante sua lunghezza anatomica ma si ritrova a perdere una parte di funzione li dove la contrattura persiste, modificando parzialmente il suo asse di movimento e sovraccaricando le rimanenti unità.

Crampo

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Il muscolo si contrae in maniera involontaria e autonoma, con una intensità e una permanenza della contrazione molto variabile.

Possiamo immaginare l’innesco (motoneurone alfa) del muscolo che viene attivato da un potenziale di azione e dalla permeabilità della sua membrana cellulare, tale membrana diventa instabile e permette una permeabilità fuori contesto che fa scattare la contrazione del muscolo, in questo caso senza un controllo volontario.

Le condizioni sono multifattoriali: alimentazione, sforzo muscolare e quindi eccessivo affaticamento, alterazione del ph tessutale, il clima (variazioni di temperatura e di umidità), intossicazioni da sostanze chimiche e farmacologiche, patologie dismetaboloche, ipossia, ischemia, malattie neurodegenerative.

Il crampo può avvenire sia in condizioni di sforzo che di riposo e ed è ovviamente temporaneo.

Stiramento (elongazione muscolare)

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Fenomeno che si manifesta quando le fibre muscolari che compongono l’intera struttura del muscolo, unite tra di loro con proteine e capaci di accorciarsi e distendersi, si allungano oltremodo, ovvero oltre la loro normale fisiologia massima.

Normalmente lo stiramento del muscolo viene registrato da una centralina (fuso neuromuscolare)
che risponde all’allungamento con una contrazione muscolare adeguata, ma può capitare che questo feedback non sia ottimale e il muscolo venga sottoposto al pericolo di un allungamento eccessivo.

06

Il dolore percepito è sicuramente acuto con una reazione di difesa del muscolo stesso, il movimento non è impedito del tutto, ma diventa deficitario in proporzione al numero delle fibre coinvolte, mantenendo una parziale funzionalità.

Questo stato si rivela pericoloso nel caso non vengano date le adeguate cure e il riposo, perchè se tralasciato, si può arrivare ad un ulteriore danno che si manifesterà con una lacerazione delle fibre e un danno organico di ben diversa entità.

 

Strappo Muscolare

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Lacerazione parziale o massivo delle fibre muscolari, l’entità cambia a seconda della quantità delle fibre coinvolte.

Il dolore è molto acuto e c’è la presenza di un edema voluminoso in base alla proporzione del danno organico.

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Si presenta una zona di depressione, segno caratteristico delle fibre muscolari lacerate, oppure un rigonfiamento nel momento in cui l’edema sia particolarmente copioso.

Lo strappo muscolare ha 3 classificazioni che si stabiliscono a seconda della percentuale di fibre coinvolte, passando da una percentuale minima ad una media per arrivare alla subtotalità e/o alla rottura totale del muscolo.

Concludendo.

Ognuna delle 4 situazioni descritte manifesta dolore, riduzione di forza e alterazioni delle normali funzioni motorie, con intensità nettamente diverse tra loro.

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Il dolore si manifesta localmente in maniera specifica irradiandosi nei tessuti strettamente vicini, ed è causa diretta del cambiamento funzionale delle catene muscolari parallele o contrapposte che si squilibrano per compensare lo stato di inefficienza del muscolo deficitario.

La contrattura lo stiramento e lo strappo muscolare necessitano di cure specifiche per poter guarire al meglio e non lasciare conseguenze dirette e indirette.

Il crampo vivendo una contestualizzazione multifattoriale va indagato su più fronti: neurologico, vascolare, metabolico (questi i principali).

Lo stato di salute muscolare è fondamentale per il movimento, per la stabilità articolare e per la postura.

Lo stato di salute muscolare è importante per il drenaggio venoso e linfatico.

Lo stato di salute muscolare è un campanello di allerta per la presenza di altre patologie concomitanti nella persona.

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L’ allenamento costante e coerente, rispetto alle nostre capacità e alla nostra età, è capace di dare una longevità alla nostra muscolatura abbassando il rischio di infortuni muscolari.

Troppo spesso sottovalutiamo i nostri muscoli cosi come li sovraccarichiamo senza la giusta attenzione.

La muscolatura va tenuta in perfetta simbiosi con l’apparato osteo-articolare, con l’equilibrio del nostro baricentro, con il sistema neurologico che lo attiva e lo controlla, con il circolo arterio-venoso che veicola al tessuto tutto ciò che gli è necessario per vivere, portando via le sostanze di scarto prodotte e in rapporto al metabolismo che lo nutre e lo fa vivere.

 

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Non dimentichiamolo!!!

Discopatia

Con il termine discopatia si indica in maniera aspecifica, un’alterazione degenerativa del disco intervertebrale.

Anatomia

Il disco intervertebrale è un’ammortizzatore naturale a forma di cuscinetto discoide, posto tra una vertebra e l’altra, che ha il compito di accompagnare il movimento della colonna vertebrale e allo stesso tempo di mitigare i carichi generati dalla forza di gravità, da una parte del peso corporeo, dai sovraccarichi esterni (come ad esempio borse, zaini etc.), dal modificarsi delle leve e dal cambiamento delle curve vertebrali.

Il disco intervertebrale è costituito da tessuto fibrocartilagineo ed è diviso in due macro strutture:

  • il nucleo polposo che ha una forma sferica ed ha un contenuto gelatinoso composto per circa l’80% di acqua e mucopolissacaridi.

Il nucleo polposo ha il compito di ammortizzare e dissipare i carichi vertebrali adattandosi alle forze compressive nei movimenti dinamici vertebrali e nell’adattamento posturale statico

  • l’anulus fibroso che è costituito da fibre proteiche con alta percentuale di collagene 1/2 e di condrociti.

È composto da anelli concentrici che si dispongono attorno al nucleo polposo con una disposizione crociata del tessuto.

L’anulus fibroso ha il compito di assecondare le traslazioni del nucleo, di assorbire e assecondare lo scarico vertebrale sul nucleo polposo e di contenere il movimento vertebrale insieme al compartimento capsulo-legamentoso.

Discopatia 02I dischi intervertebrali sviluppano un’altezza media pari a circa il 25% dell’altezza complessiva della colonna vertebrale, ma questo dato è variabile il base alla disidratazione, ovvero alla perdita di liquidi nel complesso discale durante l’arco della giornata e alla capacità di reidratazione degli stessi per effetto osmotico nel momento in cui la colonna è in posizione di scarico.

Va assolutamente detto che i dischi intervertebrali nel tempo perdono qualità viscoelastiche e la capacità di reidratarsi, sia per un processo di naturale invecchiamento, sia per la ripetizione di microtraumi, sovraccarichi e disfunzioni vertebrali.

Pertanto la discopatia è una condizione il più delle volte inevitabile nel proseguo dell’invecchiamento della persona, ma non è assolutamente detto che debba causare sintomatologia dolorose, mentre può essere una condizione predisponente a patologie vertebrali di varia natura.

Discopatia e…

Come dicevamo il termine discopatia è generico nella sua definizione ma con esso si può preannunciare una serie di problemi del disco ben identificabili……vediamoli insieme.

Discopatia 03Con il termine discopatia si può associare:

  • disidratazione discale con perdita di altezza del muro verticale
  • bulging discale
  • fissurazione discale
  • protusione discale
  • ernia discale
  • discite

Ognuna di queste condizioni può creare un’affezione patologica che difficilmente sarà isolata, ma si assocerà ad alterazione di tipo osteo-articolare, radicolare, neurologica, vascolare, muscolare, dando vita a quadri anatomopatologici ben più complessi.

Quindi che sintomi si possono associare ad una discopatia?

Un problema isolato discale può darmi una sintomatologia?

Il disco intervertebrale ha un’ innervazione sensitiva nelle porzioni più esterne dell’anulus fibroso, con una particolare attività nella zona postero laterale.

Discopatia 04Questa innervazione consente di recepire il dolore nel momento in cui la porzione anatomica sopra indicata dell’anulus fibroso, sia messa sotto stress meccanico-compressivo in maniera costante, o subisca un processo flogistico-infettivo come nella discite.

La discopatia può inoltre generare dolore in varie situazioni:

  • riduzione del lume di passaggio del forame di coniugazione, con impegno dell’uscita del nervo, nell’intersegmento tra una vertebra e l’altra e del suo pacchetto vascolare arterio-venoso
  • sovraccarico dei corpi vertebrali con possibilità di incorrere in un processo algodistrofico vertebrale di tipo MODIC
  • nevrite di passaggio tipo lombosciatalgia o cervicobrachialgia, per irritazione compressiva da erniazione del nucleo polposo
  • stenosi del canale vertebrale per erniazione del nucleo polposo con riduzione del lume del canale vertebrale
  • irritazione del compartimento articolare, per perdita della sinergia tra la biomeccanica vertebrale e l’accomodamento discale
  • contrattura muscolare come risultato di un riflesso antalgico nelle situazioni sopra annoverate.

Discopatia 05I dolori che si possono presentare in tutte queste situazioni, sono dolori che possono variare da una topografia localizzata, puntiforme o a fascia, fino ad irradiarsi sul dermatomero rispondente alla radice nervosa eventualmente coinvolta.

Nel caso il paziente soffra di sintomi legati alla stenotizzazione, potranno manifestarsi crampi muscolari associati a riduzione della forza e della resistenza durante le attività fisiche.

Come precedentemente scritto, le cause della discopatia sono da imputare al fatto che i dischi intervertebrali nel tempo, possano perdere qualità viscoelastiche e la capacità di reidratarsi, sia per un processo di invecchiamento, sia per la ripetizione di microtraumi, sovraccarichi e disfunzioni vertebrali.

Discopatia 06I dischi intervertebrali, hanno un ruolo importante nella biomeccanica vertebrale, perché non solo ammortizzano i carichi naturali e i sovraccarichi esterni, ma diventano dei veri e propri fulcri di movimento sia nei gesti singoli ,che in quelli combinati nei 3 piani dello spazio.

La cattiva sinergia vertebrale con un’alterazione delle curve di cifosi e lordosi, associata ad un’alterato rapporto di congruità tra il corpo vertebrale e le faccette articolari, è una delle cause primarie di degenerazione discale precoce e quindi di discopatia.

Come si fa una diagnosi di discopatia?

L’esame obiettivo è fondamentale per indagare sia la corretta mobilità vertebrale, che il giusto accomodamento delle curve vertebrali.

Sono molto importanti anche i test clinici che servono a far emergere segni d’impotenza funzionale e dolorabilità, a seconda delle condizioni patologiche che si associano alla dicopatia.

Fondamentali sono le indagini diagnostiche strumentali quali RX ed RM, in grado di dare un chiaro quadro dello stato anatomico in essere.

L’RX permettere di monitorare lo spazio interdiscale e le alterazioni sia delle curve vertebrali, che delle porzioni articolari, mentre l’RM consentirà di indagare nello specifico lo stato in essere del disco intervertebrale, sia nella sua forma, sia nella sua idratazione, sia nello stato di integrità dell’anulus fibroso, sia nella dislocazione del nucleo polposo, sia nel rapporto discale in merito al forame di coniugazione, alla radice nervosa e al canale vertebrale.

Come si approccia una discopatia a livello terapeutico?

Va subito detto che il disco intervertebrale è una struttura anatomica che non può rigenerarsi, pertanto la discopatia va gestita, sia per evitare che possa essere la concausa di patologie associate, sia per evitare che possa peggiorare con il passare del tempo e creare un’instabilità vertebrale.

L’utilizzo di farmaci hanno l’intento di diminuire lo stato infiammatorio e le contratture antalgiche associate, rompendo il circolo vizioso dell’impotenza funzionale.

Valido può risultare anche l’utilizzo ad intermittenza, poche ore nell’arco della giornata, di busti, collari cervicali e correggi postura, in maniera da scaricare le forze compressive, mettendo a riposo i dischi intervertebrali stessi.

La fisioterapia, l’osteopatia e la stessa attività fisica, hanno il compito di migliora l’assetto vertebrale, sia nell’unità vertebrale (vertebra-disco-vertebra), che tra le curve di cifosi e lordosi, così come hanno il compito di ottimizzare il movimento vertebrale nei 3 piani dello spazio e ridurre le fibrosità capsulo-legamentose; non va dimenticato che è di grande importanza ricercare un equilibrio muscolare tra catene agoniste e antagoniste, migliorandone anche i rapporti neurologici di feedback tra i meccanocettori associati.

Abbiamo quindi capito che la discopatia è una condizione di invecchiamento e degenerazione imprescindibile, legata all’invecchiamento biologico della persona, ma che può subire un’accelerazione gravemente patologica, per tutta una quella serie di concause di cui abbiamo parlato, pertanto non dobbiamo assolutamente trascurare la condizione di equilibrio dell’intera colonna vertebrale e ottimizzarne sempre la sua funzionalità, limitando, ove fosse possibile, l’aumento di peso corporeo e di carichi esterni elevati.

La salute passa attraverso la conoscenza e con l’articolo di oggi abbiamo la possibilità di aggiungere un tassello al nostro benessere.

Sindrome di Baastrup

Cos’è la sindrome di Baastrup?

SINDROME DI BAASTRUP 01La sindrome di BAASTRUP è un’affezione ortopedica a carico delle apofisi spinose vertebrali, generalmente con interessamento degli ultimi segmenti L3-L4-L5.

Si riscontra nel paziente un aumento morfologico di queste porzioni ossee, le quali subiscono un sovraccarico sia posizionale che biomeccanico.

Le apofisi spinose tendono ad avvicinarsi troppo tra di loro al punto tale di toccarsi e sfregare durante il movimento di estensione dorsale o addirittura nell’atteggiamento di lordosi statica.

Le apofisi spinse sono il segmento maggiormente posteriore della vertebra ed hanno il compito di fornire un aggancio sia a strutture legamentose e sia a componenti muscolari, per stabilizzare e guidare il movimento della colonna.

SINDROME DI BAASTRUP 02

La condizione ortopedica normalmente non riscontra ulteriori dimorfismi discali o dei forami intervertebrali se la sindrome è di tipo primaria, mentre nelle condizioni secondarie si può combinare ad anterolistesi e/o degenerazioni discali, con diminuzione dei volumi verticali.

Nello sviluppo in fase di accrescimento, qualora siano presenti delle megapofisi spinose, si possono creare delle vere e proprie articolazioni tra una spinosa e l’altra, con addirittura la formazione di pseudocartilagini e di sierose.

Nei casi più gravi di sindrome di Baastrup sviluppatesi nel tempo, si può assistere alla comparsa di pseudo-articolazioni e lo sviluppo di borse sierose o borse mucose perilocali, come effetto adattativo compensatorio anatomopatologico, di un contatto ed uno sfregamento del tutto anomalo.

Generalmente questa patologia si riscontra nei soggetti anziani, ma non può essere esclusa in quei pazienti che per lavoro, attività ludiche o sportive, stressano la colonna vertebrale in iperestensione posteriore. 

Sintomatologia

SintomiLa sindrome di Baastrup è asintomatica nelle fasi iniziali, per poi arrecare dolore puntiforme nella zona di contatto delle apofisi spinose interessate dall’impingment, creando un’irritazione delle corticali ossee, oppure una borsite delle sierose, che si sono venute a formare come condizione anatomopatologica precedente indicata.

Il dolore può cambiare da puntiforme a fascia con irradiazione perilocale, nei casi in cui siamo coinvolte più strutture recettoriali nella zona limitrofa alle apofisi spinose embricate.

Generalmente si associa una contrattura antalgica riflessa che limita il movimento vertebrale, creando una sensazione di impotenza funzionale e di rigidità.

Durane la fase acuta, il impaziente tende ad assumere una posizione di verticalizzazione o addirittura di cifosi lombare, per sfuggire al contatto posteriore vertebrale e diminuirne l’irritazione.

Se la patologia persiste nel tempo si può instaurare una condizione di sarcopenia, con la perdita parziale di fibre muscolari sostituite da tessuto adiposo.

Nei casi più gravi il paziente può incorrere nella frattura spontanea delle apofisi spinose coinvolte.

La sintomatologia descritta può manifestarsi in maniera saltuaria, per poi essere quasi costante od onnipresente, nell’evolversi e nel protrarsi della condizione patologica.

Le cause della sindrome di Baastrup

SINDROME DI BAASTRUP 03Come indicato precedentemente la condizione di sviluppo della sindrome di Baastrup parte da una crescita anomala di megapofisi spinose, perlopiù del segmento lombare inferiore.

L’iperplasia delle spinose, se associate alla condizione di lordosi lombare, come il normale adattamento posturale vorrebbe, o peggio ancora nelle condizioni di iperlordosi e se sovraccaricate da movimenti ripetuti in estensione dorsale o da sovraccarichi vertebrali, produce uno sfregamento anomale delle corticali ossee interessate, dando il via alla manifestazione di segni e sintomi quali quelli precedentemente descritti.

L’avanzare dell’età è una forte condizione predisponente, così come tutti quei cambiamenti di morfologia della curva lombare con accentuazione dei gradi di concavità posteriore.

Diagnosi

SINDROME DI BAASTRUP 04La diagnostica per immagini è sicuramente la strada più veloce e più sicura per diagnosticare la sindrome di Baastrup, perché sia attraverso l’RX, la RM e la TC, è possibile valutare la morfologia delle apofisi spinose e la presenza di un contatto anomale tra di esse.

l’RX DINAMICA ha l’ulteriore vantaggio di stabilire l’embricazione tra i segmenti posteriori vertebrali nel movimento di estensione della colonna, così come ha la capacità di monitorare il distanziamento delle apofisi durante il movimento di flessione anteriore, su una colonna elastica o su una colonna rigida.

L’esame RM ha il merito di valutare nei dettagli la presenza di sarcopenia o lo stato di infiammazione e degenerazione dei tessuti perivertebrali posteriori.

L’esame TC ha la capacità di individuare in maniera minuziosa lo stato di salute ossea e la presenza di esiti fratturativi anche minimi.

Il tutto chiaramente va associato ad un esame obiettivo che mira a valutare l’esacerbazione del dolore, la rigidità nel movimento vertebrale e lo stato di contrattura muscolare.

Il trattamento della sindrome di baastrup

farmaciLa terapia che si prevede nella sindrome di Baastrup è inizialmente di tipo farmacologica, utilizzando composti con capacità di ridurre l’infiammazione come i fans e i miorilassanti che hanno lo scopo di attenuare lo stato di contrattura muscolare.

Nel caso in cui il dolore abbia ormai assunto uno stato di cronicità con andamento permanente, si opterà per l’utilizzo di antidolorifici o di blocchi neurologici periferici locali.

A livello chirurgico si potrà optare per una rimozione dell’esostosi nelle porzioni marginali delle apofisi spinose coinvolte nella sindrome.

La fisioterapia ha il ruolo di elasticizzare la colonna vertebrale e di creare quei compensi biomeccanici capaci di ottimizzare i carichi delle linee d forza sia nella statica che nella dinamica, svincolando la colonna lombare stessa.

La salute passa attraverso la conoscenza e con l’articolo di oggi abbiamo la possibilità di aggiungere un tassello al nostro benessere.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Entesite

entesite 01Con il termine di entesite, si indica l’infiammazione di quelle porzioni tendinee o legamentose che prendono rapporto con l’osso sul quale si inseriscono.

Le entesiti possono riguardare ogni parte dell’apparato locomotore, ma va detto che alcune sedi del corpo ne sono maggiormente soggette, soprattuto se la causa è data da sovraccarico funzionale o da microtraumi ripetuti.

Antomia

Come accennato poc’anzi, le strutture interessate possono riguardare sia i tendini (dalla struttura biologica di tessuto connettivo fibroso ad alto contenuto di collagene, che unisce un muscolo ad un osso) che i legamenti (simili nella struttura biologica ai tendini, ma che uniscono due porzioni differenti di una zona articolare o di uno stesso osso), pertanto i meccanismi patologici possono essere per alcuni aspetti del tutto diversi tra di loro.

Sintomi dell’ entesite

I segni caratteristici dell’ entesite sono tutti riferibili a quelli tipici dell’infiammazione:

  • rubor (rossore)
  • tumor (tumefazione)
  • calor (calore)
  • dolor (dolore)
  • functio laesa (deficit funzionale)

entesite 02A questi sintomi va aggiunto un senso di rigidità che si accentua maggiormente dopo un periodo prolungato di inattività nelle pause giornaliere.

La zona di localizzazione dei segni sopra descritti è locale e perilocale ai tessuti tendinei, o legamentosi interessati dall’entesite.

In tutti quei pazienti dove la patologia si manifesta in maniera consistente, si associa una grave perdita di funzionalità che mina anche le attività di vita quotidiane.

Se l’entesite perdura nel tempo e non risponde alle corrette terapie, si può assistere alla formazione di calcificazioni, di tendinosi (specificatamente a carico dei tendini), di esostosi, come reazione anomala dell’osso nel punto di inserzione sia dei tendini che dei legamenti, fino ad arrivare nei casi più gravi alla lacerazione parziale delle fibre dei tessuti molli interessati.

Le cause

entesite 03Le cause che portano alla formazioni di entesite sono da suddividere in 4 macro categorie:

  • da sovraccarico funzionale per sollecitazioni ripetute e protratte nel tempo, sia nelle attività lavorative, che sportive, che ludiche
  • da trauma per eventi acuti di tipo compressivo, distrattivo, distorsivo, sia del tessuto molle interessato e/o delle porzioni osteo-articolari di innesto
  • da malattie sistemiche di origine autoimmunitaria come ad esempio l’artrite reumatoide, l’artrite psoriasica l’artrite reattiva, la spondilite anchilosante
  • da patologie dismetaboliche come il diabete, la gotta, l’ipercolesterolemia e l’ipertrigliceridemia.

È facile intuire che a seconda delle cause, l’insorgenza dell’entesite può essere acuta o subdola, può avere un’esacerbazione di segni e sintomi esponenziale, oppure graduale, ma in ogni caso al conclamarsi della patologia, i risvolti clinici saranno tra di loro simili.

Diagnosi dell’ entesite

Nella diagnosi dell’entesite, l’anamnesi è il punto di partenza per raccogliere i dati sulla presenza e lo sviluppo dei segni e dei sintomi associati alla patologia, sia nell’ottica del puro segmento anatomico, che in relazione alle altre strutture correlate, cercando di ottenere informazioni sulle possibili cause che la possano aver attivata.

entesite 04L’esame obiettivo dello specialista mira ad effettuare una serie di test e valutazioni, che mettono alla prova la funzione, la resistenza e la stabilità del tendine/legamento, sia nei movimenti attivi che passivi, in rispondenza all’esacerbazione del dolore.

È importante associare la diagnostica per immagini, in maniera tale da poter valutare lo stato anatomico delle strutture tendinee e/o legamentose affette da entesite.

entesite 05Per tale scopo si potrà far ricorso all’utilizzo di esami ecografici o di RM, nell’intento di studiare la conformazione dei tessuti molli, il processo infiammatorio in atto e la presenza di edema relativo.

Per la valutazione di possibili esostosi reattive, o di eventuali calcificazioni, sarà meglio far fede ad indagini mirate tramite RX.

Il trattamento

Il trattamento delle entesiti ha un protocollo simile qualunque sia la causa scatenante, ma è vero che gli accorgimenti per rendere il trattamento efficace, saranno da ottimizzare in maniera congrua all’eziologia che ne ha scaturito la patologia.

entesite 06Il riposo, il ghiaccio, l’utilizzo di tutori appropriati o il confezionamento di bendaggi elastici contenitivi, saranno i primissimi passi da proporre al paziente, a cui verrà associata una terapia antinfiammatoria, perlopiù a base di FANS.

I corticosteroidi possono essere prescritti, ma per un periodo brevissimo di somministrazione, perché lo stesso cortisone può essere un fattore favorente la comparsa dell’ entesite, se somministrato per un lungo periodo.

La fisioterapia è strettamente necessaria per ridurre l’infiammazione e favorire il recupero della funzione del tendine o dei legamenti, sia come tessuto, che come porzione anatomica di relazione rispetto ad un muscolo, ad un’ articolazione, ad un segmento osseo specifico.

Vediamo adesso quali sono le accortezze da adoperare nella gestione secondaria della patologia.

Nel caso di un’ entesite da sovraccarico funzionale, sarà necessario ridurre tutte quelle condizioni di sollecitazioni ripetute e protratte nel tempo, durante le attività lavorative, sportive, o ludiche, che ne sono state la causa di innesco.

In un’ entesite da trauma, basterà spegnere l’infiammazione legata all’evento e dare il tempo necessario al tessuto, per poter riparare il danno cellulare subito.

ChirurgiaNell’ entesite da malattie sistemiche di origine autoimmunitaria, è strettamente necessario ridurre l’iperattività del sistema immunitario per evitare che attacchi in maniera violenta i propri tessuti molli, tra cui le stesse entesi, riducendo il rischio di una ricaduta.

Le entesiti da patologie dismetaboliche, necessitano di una correzione alimentare, farmacologica o un incremento dell’attività fisica, mirata a ridurre la produzione o gli eccessi di accumulo, di tutte quelle sostanze che possono favorire l’insorgere di infiammazione o di degenerazione dei tendini o dei legamenti.

Nel caso in cui l’ entesite non dovesse rispondere ne alle cure primarie, ne a quelle fisioterapiche e a lungo termine non dovesse rispondere neanche alle gestione secondaria delle concause patologiche, allora si potrà optare per un trattamento chirurgico, dove l’intento sarà quello di fare un pulizia dei tessuti, una rimozione di eventuali calcificazioni e una riparazione, qualora se ne presentasse la necessità, delle fibre lacerate o lesionate.

L’atto chirurgico necessita di un periodo di immobilità, funzionale alla guarigione biologica dei tessuti, per poi proseguire con un percorso riabilitativo, necessario per recuperare le funzioni legate al contesto osteo-articolare-muscolare.

La guarigione dell’ entesite è possibile, con dei tempi di remissione direttamente proporzionali alla tempestività con cui si è intervenuti nel diagnosticarla, nel mettere a riposo la struttura interessata e nel somministrare la giusta cura.

La patologia di cui abbiamo parlato oggi può essere variabilmente invalidante, ed in ogni caso non va assolutamente sottovalutata, evitando che possa cronicizzare.

Dall’ entesite si guarisce, ma in nessun caso vanno forzati tempi di recupero.

La salute passa attraverso la conoscenza e con l’articolo di oggi abbiamo la possibilità di aggiungere un tassello al nostro benessere.

Sacroileite

Sacroileite 01La sacro liete è un’infiammazione localizzata all’articolazione sacro-iliaca.

Negli anni precedenti tale segmento, non veniva considerato come una vera e propria articolazione, perché considerata semplicemente un punto di giunzione tra l’osso impari del sacro e le due porzioni iliache.

Sacroileite 02Ad oggi invece studi accurati, supportati anche da esami strumentali quali rx con un angolo di 30°, rm e tc, hanno constatato il reale apporto biomeccanico, che tale giunzione articolare crea, per un adattamento sia statico che dinamico nel trasferimento di carichi nelle linee discendenti tra la colonna vertebrale e il bacino e nelle linee ascendenti tra l’arto inferiore ed il bacino.

Si può pertanto definire l’articolazione sacro-iliaca, un vero e proprio punto di passaggio tra la colonna e l’arto inferiore, dove il bacino diventa un punto di snodo fondamentale per il corretto funzionamento del cingolo pelvico.

Nella sacro-ileite il paziente riferisce dolore nella zona sacro-ilica, indicandola in maniera puntiforme o irradiata, monolateralmente o bilateralmente.

Sacroileite 03Vediamo insieme qual’è la topografia del dolore:

  • zona di giunzione tra sacro e iliaco e quindi nell’area postero superiore del bacino, ad un palmo di mano dalla linea mediana
  • regione lombare inferiore, puntiforme nella porzione postero laterale
  • regione glutea
  • regione posteriore della coscia.

La sacro-ileite, può avere un andamento sintomatico ad intermittenza, oppure costante, con dei picchi di dolore che rendono la persona inabile ad effettuare i movimenti minimi nelle attività di vita quotidiana.

Le cause che portano alla manifestazione infiammatoria articolare sono molte:

  • traumi
  • artrite (tra le principali troviamo la pelvi-spondilite anchilosante, l’artrite reumatoide, l’artrite psoriasica, l’artrite reattiva, il lupus eritematoso, la gotta)
  • infezioni di tipo batterico sia locali, che a distanza, per interessamento di organi o strutture terze
  • elongazioni e stiramento dei legamenti sacro-iliaci sia nella porzione anteriore che posteriore
  • gravidanza.

Negli eventi traumatici, nei disturbi legamentosi o di tipo infettivo, il dolore si manifesta in maniera monolaterale, mentre in tutte le altre situazioni, il sintomo doloroso tende ad essere bilaterale, indipendentemente dal fatto che possa essere simmetrico o meno.

Va assolutamente ricordato che nello sviluppo della patologia, ci possono essere delle concause capaci di accelerare l’instaurarsi della sacro-ileite, come lo stare molto tempo fermo in piedi, correre, saltare, camminare con una falcata eccessivamente lunga, avere delle posture scorrette, che influenzano il bacino nelle sue interrelazioni con la colonna vertebrale e con le anche.

La diagnosi di sacro-ileite, necessita di un’anamnesi in grado di raccogliere i segni e i sintomi del paziente, riferiti sia nello sviluppo della patologia, sia nella sua evoluzione e valutare se vi è associata una storia di infezione batterica o di familiarità nello sviluppo di patologie autoimmunitarie e artritiche.

A seguire sarà necessario un attento esame obiettivo, per valutare la topografia del dolore, l’esacerbazione del dolore alla palpazione e nella richiesta di movimenti attivi e indotti, in concomitanza alla valutazione delle funzioni residue in ambito biomeccanico e muscolare.

Sacroileite 04Nella diagnosi sarà quasi sempre necessario associare lo studio tramite indagini diagnostiche, valide sia nell’utilizzo di rx che in quello di rm e tc.

L’rx e ancor meglio la tc, saranno in grado di valutare l’alterazione anatomica della zona articolare con un cambiamento di morfologia, mentre la rm potrà valutare in maniera dettagliata, il quadro anatomo-patologico dei tessuti molli periarticolari.

Anche gli esami di laboratorio hanno un peso rilevante, nel momento in cui è necessario studiare la presenza di alterazioni infettive, metaboliche, o di tipo autoimmunitario.

Il trattamento della sacro-ileite ha sempre una partenza conservativa, mirata alla riduzione del dolore e alla ripresa della funzionalità dell’apparato locomotore locale e di relazione.

La terapia farmacologica sarà modulata sul paziente a seconda delle cause che hanno innescato la patologia.

Pertanto si potrà procedere con la somministrazione di:

  • antinfiammatori FANS
  • cortisonici
  • farmaci inibitori del TNF alfa
  • miorilassanti.

Sacroileite 05Il riposo e l’applicazioni del ghiaccio, sono sempre utili nella gestione del dolore della sacro-ileite, anche se in maniera aspecifica.

La fisioterapia è fondamentale per poter recuperare la funzione muscolo articolare e propriocettiva persa, in una condizione tanto acuta quanto cronica, così com’è importante nella gestione del dolore stesso.

Sacroileite 06Nel caso in cui la sacro-ileite non risponda a nessuna terapia sopra indicata, si può pensare all’utilizzo di una strada chirurgica, dove vengono presi in considerazioni vari percorsi, tra cui l’artrodesi dell’articolazione stessa, ovvero la fusione delle due giunzioni articolari, così come può essere valutata la denervazione, tramite radiofrequenza, dei rami neurologici periferici che raccolgono le informazioni nocicettive della zona articolare, così come si può optare per l’innesto di stimolatori elettrici per modulare l’afferenza sensoriale articolare e periarticolare.

Come sempre l’attività chirurgica può essere una strada praticabile, ma va attentamente valutato il bilancio tra rischi e benefici di un’intervento che modifica in maniera definitiva, lo stato in essere delle strutture anatomo-funzionali in discussione.

In conclusione la sacro-ileite è una patologia invalidante, sia nella situazione acuta quanto in quella cronica, ma le conoscenze scientifiche e quelle anatomopatologiche, ci mettono nella condizione di poterla gestire in maniera efficace, senza dover ricorrere in prima battuta, ad interventi invasivi.

È ovvio che in una situazione del genere, anche una volta spenta la patologia, si dovrà istruire il paziente ad adoperare quelle accortezze, che possano evitare il ripresentarsi della sacro-ileite, delimitando i fattori di commorbilità nella loro attivazione.

La salute passa attraverso la conoscenza e con l’articolo di oggi abbiamo la possibilità di aggiungere un tassello al nostro benessere.