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Ernie muscolari miofasciali

Ernie muscolari miofasciali 01Le ernie muscolari, in ambito medico chiamate anche con il nome di ernie miofasciali, sono delle protuberanze di fibre muscolari attraverso il tessuto fasciale di contenimento.

Il tessuto fasciale è una guaina, una lamina o qualsiasi altra aggregazione di tessuto connettivo dissezionabile, che si forma sotto la pelle, per unire, racchiudere e separare muscoli e altri organi interni.

Il sistema fasciale consiste nel continuum tridimensionale dei tessuti connettivi fibrosi, contenenti collagene, lassi e densi, fornendo un ambiente che consente a tutti i sistemi di funzionare in modo integrato.

Le ernie muscolari possono essere singole o multiple, con origine acquisita, nella maggior parte dei casi e, meno frequentemente, di tipo congenite.

Ernie muscolari miofasciali 02Si manifesta un assottigliamento e/o una lacerazione segmentale della fascia, con la protrusione di fibre muscolari dall’apertura fasciale, in maniera eccentrica.

Le lesioni acquisite possono essere causate da attività sportiva, traumi di tipo lesivo o contusivo, infortuni sul lavoro, o secondarie ad interventi chirurgici che prevedono l’incisione della fascia di contenimento di uno o più tessuti, come nelle fasciotomie per sindromi compartimentali.

Le lesioni fasciali acquisite possono essere favorite anche da una minor resistenza nei punti di passaggio di nervi e vasi perforanti, che generano un’apertura naturale del tessuto fasciale.

Le ernie muscolari possono coinvolgere con più frequenza i muscoli degli arti superiori ed inferiori.

Questa condizione erniaria è generalmente indolore, ma se non curata e mal gestita, può causare algia, soprattutto durante gli sforzi fisici segmentali prolungati, che aumentando il volume dell’erniazione muscolare, può causare un’intrappolamento delle fibre muscolari nel pertugio fasciale, causando un’ischemia transitoria delle fibre stesse.

Ernie muscolari miofasciali 03Nel caso di erniazione muscolare da evento traumatico, il dolore può manifestarsi in maniera acuta, con la presenza di un edema associato, ed una riduzione della forza e della resistenza segmentale.

Come accennato all’inizio dell’articolo le ernie muscolari possono essere acquisite o congenite.

Questa distinzione sta a significare che parlando di eventi acquisiti, nella maggior pare dei casi, il tessuto fasciale di contenimento è sano, ma per eventi associati, subisce una lesione diretta o indiretta, mentre nelle situazioni congenite, c’è un alterazione biologica del tessuto connettivo fasciale che lo rende maggiormente fragile, perdendo le capacità meccaniche.

Ernie muscolari miofasciali 04Tra gli eventi acquisiti troviamo:

-trauma diretto lacerativo

-trauma diretto contusivo

-microtraumi ripetuti

-sforzi fisici eccessivi e lungamente protratti

-postumi secondari da intervento chirurgico che prevedono l’incisione della fascia di contenimento di uno o più tessuti.

Tra le cause congenite troviamo:

-patologie autoimmunitarie che coinvolgono il tessuto connettivo come la sindrome di Sjogren, il lupus eritematoso, la sclerosi sistemica e similari.

Va ricordato che i punti di accesso nel tessuto fasciale dei tronchi nervosi periferici e dei vasi vascolari, possono favorite una minor resistenza nei punti di passaggio, che generano un’apertura naturale del tessuto fasciale.

Nella valutazione diagnostica, l’esame obiettivo ed un’anamnesi approfondita che raccolga i dati del paziente inerenti alla patologia, sono di fondamentale importanza.

L’ernia muscolare si evidenzia in maniera visiva, durante la contrazione muscolare concentrica a carico libero e in maniera maggiore in controresistenza.

Ernie muscolari miofasciali 05A livello palpatorio, nel punto dell’ernia muscolare, si apprezza una zona di minor resistenza del tessuto, con la sensazione di affondare oltremisura nel tessuto erniato.

Nel caso di trauma sarà evidente anche una zona di tumefazione più o meno estesa.

A livello strumentale, le indagini che maggiormente sono in grado di definire la condizione di ernia muscolare è l’ecografia, eseguita sia a riposo che in dinamica, capace di vedere come le fibre muscolari si protrudono nel pertugio fasciale.

Ernie muscolari miofasciali 06Anche la RM è un eccellente esame diagnostico, in grado di valutare lo stato anatomico dei tessuti molli muscolari e fasciali.

L’approccio alle ernie di piccole dimensioni generalmente non richiede cure specifiche, ma vengono gestite con l’ottimizzazione di un attività fisica che possa essere coerente con la patologia stessa.

Ernie muscolari miofasciali 07Nel caso in cui invece si trovi associata un’algia di tipo ischemico e/o una tumefazione associata, sarà di grande importanza drenare la zona edematosa e migliorare l’elasticità fasciale della zona erniata, per poi utilizzare dei manicotti elastici di contenimento della zona erniata.

Il trattamento chirurgico è necessario solo se i sintomi sono gravi o invalidanti.

Tra le strade chirurgiche utilizzate, c’è la chiusura diretta del pertugio fasciale sede dell’ernia muscolare, ma va detto che questa scelta non è priva di rischi, perché il paziente può andare incontro allo sviluppo di una sindrome compartimentale, che potrebbe richiedere a posteriori, una fasciotomia, invalidando il trattamento riparativo stesso.

Un’altra strada chirurgica utilizzabile è la fasciotomia segmentale, ma questa metodica produrrebbe ulteriori deformità muscolari e una alterazione del feedback dei meccanocettori nella contrazione e nel rilasciamento muscolare, sia a livello segmentale che nelle relazioni delle catene miofasciali.

Sembra ci siano dei buoni riscontri nell’utilizzo di tecniche riparative, per mezzo del tessuto sintetico chiamato FASCIA CTP, con un riscontro efficace sia nella gestione dell’intervento e sia nella ripresa funzionale.

Ernie muscolari miofasciali 08In ogni tipo di intervento chirurgico applicato, sarà necessario ottimizzare il recupero del paziente, tramite un percorso riabilitativo, mirato alla prevenzione delle possibili aderenze post intervento, nella gestione dell’eventuale comparsa di edemi locali e nel ristabilire il miglior equilibrio muscolare, integrato alle catene fasciali locali e a distanza e sia nel reclutamento delle fibre muscolari i fase di contrazione e in fase di allungamento.

In conclusione l’ernia muscolare è una condizione dalle molteplici varianti cliniche, può essere  facilmente gestibile, oppure andare in contro ad una strada terapeutica importante, ma in entrambi i casi le possibilità di recupero sono alte.

La salute passa attraverso la conoscenza e con l’articolo di oggi abbiamo la possibilità di aggiungere un tassello al nostro benessere.

 

 

 

Rotula bipartita

Rotula bipartita 01La rotula bipartita è una patologia a carico del ginocchio, che si caratterizza per una mancata fusione di uno (o più di uno) dei nuclei di ossificazione, rispetto all’unità primaria della rotula stessa.

La rotula è un osso definito sesamoide, il più grande nel contesto del corpo umano, che si posiziona anteriormente all’articolazione femoro-tibiale del ginocchio, contenuto in un sistema crociato formato dal tendine del muscolo quadricipite, dal tendine rotuleo e dai reticoli laterali e mediali della rotula.

Ha il compito di ottimizzare la funzione del muscolo quadricipite, rispetto ad un asse apparentemente svantaggioso, che si sviluppa tra la diafisi femorale e quella tibiale.

La rotula bipartita non è una patologia molto frequente, si stima che possa arrivare ad un massimo del 6% della popolazione e nella maggior parte dei casi il suo riscontro è totalmente fortuito, in virtù del fatto che è pressoché asintomatica; solamente il 2% di chi ne è affetto, riferisce una sintomatologia che conduce il paziente a visita dallo specialista.

Conseguentemente a quanto detto, la diagnosi di rotula bipartita viene elaborata nella stragrande maggioranza dei casi, in concomitanza di esami casuali inerenti al ginocchio, per indagare patologie indipendenti a carico dell’articolazione stessa.

Rotula bipartita 02La rotula bipartita ha una classificazione specifica, che viene catalogata in base al posizionamento del frammento rotuleo non ossificato:

  • bipartitismo di tipo 1

mancata ossificazione del polo inferiore (5%)

  • -bipartitismo di tipo 2

mancata ossificazione del polo laterale (20%)

  • bipartitismo di tipo 3

mancata ossificazione del polo supero-laterale (75%)

Va aggiunto che in una sottoclassificazione, lo stato in essere della patologia, può differenziarsi tra una bipartizione della rotula o in una tripartizione, a seconda di quanti sono i nuclei di ossificazione che non portano a termine il loro sviluppo all’interno del contesto osseo sesamoideo.

Rotula bipartita 03Generalmente la rotula bipartita è asintomatica, ma nei casi in cui dovesse venire a manifestare dei segni patologici, il paziente riferirebbe:

  • dolore nella zona anteriore del ginocchio
  • limitazione nella flessione e nell’estensione articolare in prossimità dei gradi estremi
  • presenza di gonfiore associato a dolenzia, nella zona perirotulea
  • riduzione della forza e della resistenza dei muscoli della coscia.

Questa serie di sintomi comporta una riduzione di funzione dell’articolazione del ginocchio, con una perdita delle capacità ordinarie e ludiche, non totalmente invalidanti, ma sufficientemente fastidiose al punto tale da dover ricorrere allo specialista.

La patogenesi della rotula bipartita è da imputare alla mancata ossificazione dei nuclei di accrescimento cartilaginei in relazione con l’unità primaria rotulea, come avevamo accennato all’inizio dell’articolo.

Le cause della mancata ossificazione possono riscontrarsi in:

  • eventi traumatici
  • infarto vascolare della zona
  • trazioni muscolo-tendinee e legamentose eccessive
  • alterazioni del metabolismo
  • la combinazione dei fattori sopra citati.

Se il paziente è asintomatico, il riscontro della bipartizione rotulea è del tutto fortuito ed avviene in concomitanza di esami articolari, richiesti per delle patologie associate al ginocchio del tutto indipendenti.

Rotula bipartita 04Nel caso in cui invece il paziente manifesti un disagio patologico, è bene procedere ad una visita specialistica, dove in appoggio all’esame obiettivo, verranno richieste delle indagini diagnostiche per valutare la presenza del distacco parcellare rotuleo e lo stato in essere dell’osso sesamoide, rispetto alle strutture muscolo-tendinee e legametose.

dolore-ginocchioGli esami di supporto sono l’RX e la TC, che ci permettono di valutare con attenzione lo stato anatomico osseo, mentre l’esame RM, ci permetterà di valutare la presenza del bipartitismo rotuleo, in relazione ai tessuti molli ad esso annessi.

La rotula bipartita viene messa in trattamento solamente nei casi in cui sia sintomatica e invalidante nelle attività di vita quotidiana.

Il primo approccio e di natura farmacologica e fisioterapica.

A livello farmacologico vengono utilizzati farmaci antinfiammatori della categoria FANS, con l’intento di ridurre l’infiammazione e l’edema concomitante.

Possono essere associati farmaci antidolorifici e molecole antiedemigene per limitare la soglia di dolorabilità e interrompere l’arco riflesso che induce alla contrattura antalgica riferita.

L’antiedemigeno ha il compito di ridurre l’edema e con esso diminuire l’effetto compressivo sui compartimenti periarticolari rotulei, migliorando l’escursione articolare e lo scorrimento delle catene miofasciali.

Rotula bipartita 06La fisioterapia ha il ruolo di recuperare le capacità motorie e funzionali dell’articolazione del ginocchio e di recuperare le capacità tonico-trofiche della muscolatura associata, che otterranno il massimo del beneficio, se associate ad un allenamento propriocettivo, mirato ad aumentare le risposte integrate dei meccanocettori articolari.

Sempre nell’ambito fisioterapico, la sintomatologia associata alla rotula bipartita, può essere affrontata grazie  all’utilizzo di terapie antinfiammatorie e biostimolanti, mediante l’utilizzo di apparecchiature dedicate.

Nel caso in cui i protocolli sopra indicati, non sortiscano l’effetto sperato, sarà necessario ricorrere alla chirurgia per via artroscopia o per accesso a cielo aperto.

chirurgiaIn entrambi i casi l’intento sarà indirizzato in 3 possibili direzioni:

  • escissione del frammento rotuleo
  • lisi del retinacolo rotuleo
  • distacco dell’area inserzionale del vasto laterale.

Ovviamente il tipo di intervento chirurgico sarà indirizzato in base alla categoria di appartenenza della bipartizione rotulea.

Per quanto riguarda la scelta del tipo di intervento, se in artroscopia o a cielo aperto, si protende a scegliere la via artroscopica, per ridurre gli effetti del danno chirurgico, ma non sempre sarà una scelta possibile, perché la complessità dell’intervento può far protendere il chirurgo ad una accesso a cielo aperto, operando con maggior sicurezza e con un campo di azione maggiore.

L’intervento chirurgico, di qualsivoglia natura, avrà la necessità di sottoporre il paziente ad un periodo di riabilitazione, in grado di ottimizzare il recupero articolare, muscolare, propriocettivo e di eliminare gli effetti dell’atto chirurgico stesso.

La rotula bipartita è una patologia generalmente silente, che difficilmente pone il paziente in una condizione di crisi, ma nel caso in cui dovesse manifestare una sintomatologia, ha la possibilità di risoluzione, intervenendo su vari fronti e con una percentuale di successo molto alta.

La salute passa attraverso la conoscenza e con l’articolo di oggi abbiamo la possibilità di aggiungere un tassello al nostro benessere.

 

 

Sindrome compartimentale

La sindrome compartimentale è un aumento della pressione nel compartimento muscolare, chiuso all’interno del suo involucro fasciale.

L’involucro fasciale di contenimento, è costituito da tessuto connettivo di tipo fibroso, caratterizzate dall’insieme di strie di collagene ravvicinate tra di loro.

Il rapporto che la fascia ha con il muscolo è di contenere il muscolo stesso, di dargli una forma, di metterlo in collegamento e relazione con le altre strutture muscolari contigue, creando quella che si chiama catena miofasciale.

Sindrome compartimentale 01Il compartimento fasciale non ospita solamente il muscolo, ma anche i vasi sanguigni arterio-venosi e linfatici segmentali, insieme alle strutture neurologiche di passaggio.

Generalmente la pressione nel compartimento fasciale, si innalza per edemi o per emorragie e dato che il tessuto fasciale di contenimento muscolare non ha una grande capacità elastica, anzi tende ad essere rigida, per garantire sostegno e protezione alle strutture che ospita, non ha una capacità di adattarsi e di dissipare gli aumenti di contenuto e quindi di pressione.

Sindrome compartimentale 02La pericolosità della sindrome compartimentale, sta nel fatto che l’innalzamento pressorio all’interno di uno spazio chiuso e poco espandibile, genera una compressione importante principalmente sui vasi, sia venosi che arteriosi, dove nel primo caso ne riduce il drenaggio del sangue arricchito di cataboliti, aumentando l’acidità del ph nel tessuto e accendendo un processo infiammatorio, nel caso invece di una compressione arteriosa si genera un principio di ipossia e anossia, dovuta alla minor irrorazione del sangue arricchito di ossigeno nei tessuti, con la complicanza di poter causare una necrosi cellulare dei tessuti coinvolti.

Infine sempre la compressione, caratteristica della sindrome compartimentale, applicata e protratta sui nervi periferici segmentali, rischia di creare una sofferenza del nervo stesso, sino ad arrivare ad una denervazione locale ed eccentrica.

La sindrome compartimentale può svilupparsi in ogni parte dl corpo, ma statisticamente le parti più colpite sono i segmenti periferici, pertanto gli arti superiori e inferiori.

La sindrome compartimentale viene divisa in due classificazioni:

  • forma acuta che insorge improvvisamente ed è molto pericolosa per lo stato di salute segmentale in primis e sistemica a seguire
  • forma cronica che insorge in maniera progressiva, è meno pericolosa ed è più facilmente gestibile.

Sindrome compartimentale 03I sintomi che si manifestano hanno degli aspetti comuni nonostante le due diverse forme.

Il dolore, il senso di intorpidimento, la tensione muscolare, la rigidità muscolare, i crampi muscolari, la riduzione di forza, il formicolio, le alterazioni di sensibilità parestetiche, sono condizioni variabili a seconda della gravità con cui si presenta la sindrome compartimentale.

La differenza tra la forma acuta e la forma cronica, è che nella forma acuta i sintomi si presentano anche a riposo, con una difficoltà riscontrata già nelle attività minime di vita quotidiana, fino a risultare addirittura impossibili in quelle attività che richiedono uno sforzo o un resistenza protratta, mentre nelle forme croniche i sintomi si esacerbano nelle attività prolungate, abbinate al massimo sforzo, alla massima resistenza o alla massima escursione di allungamento delle fibre muscolari tendinee .

Sindrome compartimentale 04Per la differente manifestazione clinica e sintomatica, va detto che la condizione acuta rappresenta un quadro di urgenza, dove il protrarsi della situazione può causare dei danni irreparabili, mentre la condizione cronica può essere gestita, anche se va monitorata con attenzione, per evitare che la sua evoluzione possa causare dei danni importanti con un’alterazione cellulare irreversibile.

Come accennavamo all’inizio dell’articolo le cause della sindrome compartimentale sono da imputarsi ad edema di importanti dimensioni o peggio ancora ad emorragia, che aumentano il volume compressivo all’interno della sacca fasciale di contenimento del segmento muscolare interessato, senza la possibilità di compensare in maniera elastica l’espansione del volume stesso.

Sindrome compartimentale 05Le cause della sindrome compartimentale acuta sono da imputarsi a:

  • lesioni muscolari importanti associate a strappo o lacerazione delle fibre stesse
  • traumi da schiacciamento del segmento
  • fratture ossee del segmento inerente
  • bendaggi compressivi eccessivamente stretti
  • applicazioni di apparecchi gessati eccessivamente stretti
  • interventi chirurgici che abbiano la complicanza di stravasi vascolari
  • ustioni gravi che portino ad un copioso stravaso edematoso
  • abuso di alcol o di farmaci che possano causare un edema importante

Nella sindrome compartimentale acuta l’evoluzione patologica evolve nel giro di poche ore e proprio per la sua irruenza nella manifestazione, richiede un intervento medico tempestivo.

Le cause della sindrome compartimentale cronica sono da imputarsi a:

  • gesti fisici ripetuti, che prevedono un massimo effetto di allungamento ed elongazione delle fibre muscolo-tendinee e capsulo-legamentose.
  • attività fisiche protratte nel tempo e dall’importante impegno dell’apparato muscolo-scheletrico

Nella sindrome compartimentale cronica è spesso il paziente stesso a riuscire a gestire la sua patologia, ottimizzando i tempi di riposo e di recupero in base allo stato di salute e all’impegno fisico programmato.

Nella diagnosi della sindrome compartimentale, l’anamnesi è il primo approccio, dove il racconto del paziente inerente agli eventi antecedenti all’insorgere della patologia e l’esposizione dei sintomi riferiti, sono da associare all’esame obiettivo, che lo specialista sanitario deve condurre per indagare lo stato di salute e di funzione, associabile alla patologia presunta.

Sindrome compartimentale 06L’esame radiografico viene utilizzato nel caso ci siano sospetti di traumi osteo-articolari, con la presenza di fratture o lussazioni.

La risonanza magnetica può risultare molto utile nel caso sia necessario indagare lo stravaso di liquido edematoso o emorragico, nel compartimento segmentale sofferente.

Con lo stesso intento si può ricorrere all’esame ecografico, che in maniera sufficientemente soddisfacente, è in grado di fornirci le stesse informazioni sulla presenza di edemi, emorragie e danni dei tessuti molli.

L’ecocolordoppler ha lo scopo di studiare il flusso ematico e la pervietà delle vie vascolari.

L’esame elettromiografico potrà rendersi necessario nel caso si sospetti un danno neurologico periferico, per effetto compressivo o anossico.

Sindrome compartimentale 07Non ultimo può essere utilizzato un misuratore di pressione compartimentale, che per mezzo di un ago, monitorizza lo stato pressorio, sia nella statica, che nella dinamica del movimento passivo e attivo.

Il tarattamento della sindrome compartimentale è diverso nel caso sia una forma acuta o conica, ma  in entrambi l’obiettivo comune è ridurre la compressione causata dall’aumento della pressione nel compartimento singolo o multiplo, eliminando, dove sia possibile, le cause che hanno condotto alla sindrome.

Sindrome compartimentale 08Nella forma acuta il trattamento è quasi sempre chirurgico e nella maggior parte dei casi, eseguito in urgenza, facendo una fasciotomia, che prevede l’incisione della fascia di contenimento, per far drenare il contenuto liquido decomprimendo la zona.

Il drenaggio può durare anche 3 giorni, per evitare che alla chiusura dell’accesso chirurgico, si possa ripresentare la patologia come in origine.

Nella forma cronica invece il trattamento è di tipo conservativo optando per associare periodi di riposo, alla gestione dello sforzo fisico in relazione agli impegni lavorativi o sportivi, in maniera da non arrivare ad episodi di overstress dell’apparato muscolo-scheletrico.

Sindrome compartimentale 09È importante riuscire a fare esercizi di allungamento e di articolarità, per ottimizzare le funzioni locomotorie ed essere pronti e predisposti allo sforzo richiesto nel gesto atletico, ludico o lavorativo.

La fisioterapia ha la sua importanza per la gestione dell’edema, della retrazione muscolo-tendinea, dell’infiammazione, del disimbrigliamento del nervo nei suoi canali di passaggio.

Può risultare molto utile anche l’utilizzo di calze o bracciali drenanti a compressione graduale, per il drenaggio dei liquidi in eccesso verso i punti circolatori di affluenza primari.

A livello farmacologico sono di grande aiuto l’utilizzo di antinfiammatori, che possono variare dai FANS ai cortisonici, nel caso ci sia la necessità di affrontare un processo infiammatorio, oppure di gestire un’infiammazione associata ad un’edema di recente manifestazione.

Anche gli antiedemigeni possono essere utili nel caso in cui sia necessario utilizzare un supporto a fronte di protocolli fisioterapici in atto.

Non ultimo sarà opportuno fare delle applicazioni di ghiaccio, più volte al giorno, che possano fungere sia da antinfiammatorio naturale e sia da vasocostrittore, per il contenimento dello stravaso edematoso o emorragico.

Alla fine della gestione della sindrome compartimentale, (acuta o cronica che sia) il riaffacciarsi alla ripresa delle attività fisiche lavorative o sportive, deve avvenire in maniera graduale, allenando la struttura sia allo sforzo, sia alla ripetitività del gesto, che alla resistenza.

La salute passa attraverso la conoscenza e con l’articolo di oggi abbiamo la possibilità di aggiungere un tassello al nostro benessere.

Lesione slap nella spalla

Per lesione slap si definisce una lacerazione della parte superiore del cercine glenoideo, che stando alla definizione, interessa la porzione antero-posteriore.

Il cercine glenoideo è una fibrocartilagine che circonda la glena scapolare, ottimizzando il rapporto articolare tra la testa dell’omero e la glena stessa, stabilizzando l’articolazione in sinergia con la capsula e i legamenti articolari, riducendo il rischio di lussazione.

La porzione superiore del cercine glenoideo, offre un ancoraggio ad una porzione del tendine del capo lungo del bicipite.

Le lesioni slap sono state catalogate con molteplici varianti; ne enunceremo 10 di esse, ma va detto che le prime 4 sono quelle che maggiormente vengono riscontrate e che hanno un meccanismo patogenico più comune.

  • Lesione slap 01tipo 1:

Sfaldamento degenerativo della porzione superiore del cercine glenoideo, senza segni di di distacco, ne di di perdita di congruità con la porzione inserzionale del capo lungo del bicipite.

  • tipo 2:

Distacco antero-superiore, o postero-superiore, o antero-postero-superiore  del cercine glenoideo e di una porzione dell’inserzione tendine del capo lungo del bicipite, con conseguente instabilità della spalla.

  • tipo 3:

Lesione a manico di secchio del cercine glenoideo, senza interessamento tendineo dell’aggancio del capo lungo del bicipite.

  • Lesione slap 02tipo 4:

Lesione a manico di secchio associata ad una lacerazione parziale dell’ancoraggio della porzione del capo lungo dl bicipite.

  • tipo 5:

Lesione di Bankart ovvero una lesione della porzione antero-inferiore del cercine, associata ad una lesione di tipo 2.

  • tipo 6:

Lesione di una porzione della parte superiore del cercine, con distacco dell’ancoraggio del capo lungo del bicipite.

  • tipo 7:

Lesione slap 03Distacco della porzione superiore del cercine glenoideo e del tendine del capo lungo del bicipite

  • tipo 8:

Estensione della lesione slap posteriormente oltre misura.

  • tipo 9:

Lesione slap che si estende su tutto il perimetro del cercine glenoideo.

  • tipo 10:

Lesione di bankart inversa, ovvero lesione della porzione postero-inferiore del cercine glenoideo.

Come abbiamo visto le lesioni slap per la loro differente natura, oltre che ad eventi traumatici, hanno dei fattori di rischio che ne potenziano la patogenesi quali:

  • i fattori di invecchiamento biologici legati all’età
  • le lassità capsulo-legamentose congenite, o acquisite dopo eventi traumatici
  • i movimenti ripetuti, con elevazione del braccio sopra la linea della spalla e della testa.

Nel quadro sintomatologico, il dolore nella zona periarticolare, si associa ad una limitazione dei movimenti e ad una perdita di forza nell’esecuzione del gesto voluto, alle volte associato a degli scrosci.

Lesione slap 04I movimenti che risultano maggiormente deficitari nella lesione slap sono:

  • l’abduzione semplice
  • l’abduzione al di sopra della linea della spalla
  • l’abduzione associata alla massima extrarotazione
  • l’abduzione associata all’estensione del braccio
  • l’extrarotazione semplice
  • l’intrarotazione del braccio, associata alla retropulsione.

Più la lesione slap è complessa e maggiori sono i movimenti singoli o associati deficitari, o impossibilitati nella loro esecuzione.

Anche la stabilità della spalla viene compromessa, mettendo a rischio lo stato di salute delle strutture capsulo-legmentose e muscolari, che interagiscono in maniera sinergica nella biomeccanica articolare.

Lesione slap 05Il dolore tende a localizzarsi nella zona anteriore o antero-laterale della spalla, che corrisponde sia alla sede della lesione del cercine glenoideo, sia alla zona di aggancio del capo lungo del bicipite brachiale, anche se non è raro trovare una migrazione del dolore nella zona posteriore della spalla che può estendersi fino al margine ascellare.

Il dolore oltre che essere presente durante i movimenti, sopratutto quelli che al di là della linea delle spalla, o peggio ancora, al di sopra della testa, può comparire anche durante le ore notturne se il paziente si corica dal lato dell’articolazione sofferente, mandando in compressione la testa omerale contro la cavità glenoidea e traslandola in superiorità.

La lesione slap può essere il risultato di un trauma della spalla, come una caduta sul braccio teso, un trauma diretto, una lussazione, una trazione violenta con il braccio in abduzione ed extrarotazione, un’iperestensione della spalla non coordinata con la contenzione tonica riflessa della muscolatura inerente, ma nella maggior parte dei casi, il cercine glenoideo si lesiona anche solo per il normale processo di invecchiamento della persona.

Il processo di invecchiamento è quasi sempre associato ad una degenerazione delle strutture tendinee, legamentose e cartilaginee, per cui il cercine glenoideo che sviluppa una fissurazione, ha un percorso di perdita di funzione e di dolorabilità che rimane sopito, per poi manifestarsi in maniera subdola e progressivamente invalidante.

Lesione slap 06Il sovraccarico funzionale è un’altro fattore determinante nello sviluppo della lesione, perché la ripetitività del gesto nelle condizioni di stress funzionale, porta ad una lacerazione anzitempo del cercine stesso.

Può interessare sia gli sportivi che utilizzano un movimento ripetitivo del braccio sopra la linea della spalla e peggio ancora della testa, associata ad extrarotazione, elevazione ed abduzione del braccio stesso.

Anche alcune categorie professionali possono essere interessate da questa tipologia di lesione, se utilizzano un movimento combinato come sopra descritto.

Le tendinopatie delle componenti stabilizzatrici della spalla (cuffia dei rotatori) e del capo lungo del bicipite, possono portare ad una slap, sia per il cattivo centramento della testa omerale rispetto alla glena, sia per il rapporto patologico che si può instaurare con l’aggancio del capo lungo lungo del bicipite brachiale sulla porzione cercinea glenoidea.

Lesione slap 07Nella diagnosi di lesione slap, l’anamnesi è il punto di partenza per poter identificare la presenza o meno di un trauma, così come il resoconto dei sintomi raccontati dal paziente, le compromissioni nello svolgimento delle attività di vita quotidiane e il tipo movimento che viene richiesto alla spalla sia nell’ambito lavorativo che ludico, rispetto alle caratteristiche di una lesione slap.

L’esame obiettivo dello specialista mira ad effettuare una serie di test che mettono alla prova la funzione della spalla sia nei movimenti attivi che passivi in rispondenza dell’esacerbazione del dolore e della resistenza articolare nell’attivazione muscolare congrua alla ricerca del movimento specifico.

Per quanto riguarda la diagnostica per immagini, risultano utili sia le immagini RX che quelle di RM.

L’RX di spalla ha il compito di valutare lo stato in essere delle strutture articolari, sia a livello della testa omerale che della glena scapolare, osservando l’eventuale presenza di artrosi, la riduzione degli spazi articolari, o la mal posizione della testa omerale in relazione ai regolari rapporti articolari scapolari e clavicolari.

Lesione slap 09La RM invece valuta lo stato anatomico sia del cercine glenoideo, sia delle strutture muscolo-tendinee e capsulo-legametose della spalla.

Nel caso la RM non sia in grado di fornire un’immagine sufficientemente chiara sullo stato anatomico del cercine glenoideo, si può richiedere un’ artro-risonanza con mezzo di contrasto, capace di valutare in minuzioso dettaglio, la consistenza del cercine e non solo.

La terapia di primo approccio scelta per la gestione della lesione slap è conservativa.

Le lesioni da invecchiamento o da sovraccarico funzionale, reagiscono abbastanza bene a questa strada terapeutica.

Verranno pertanto utilizzati:

  • farmaci antinfiammatori
  • applicazioni di ghiaccio
  • riposo articolare, che nelle situazioni più avanzate, può associarsi all’utilizzo di un tutore, variabile nel tempo, dai 15 ai 30 giorni
  • fisioterapia mirata al recupero articolare, al ricondizionamento delle sinergie muscolari, all’ottimizzazione del tono-trofismo muscolare, al miglioramento delle cooperazioni biomeccaniche tra la spalla, il cingolo scapolare, la colonna vertebrale e non ultimo, un allenamento del sistema propriocettivo articolare.

La terapia conservativa non ha la capacità di guarire la lesione del cercine glenoideo, ma ha l’intento di ridurre l’infiammazione e di ottimizzare le funzioni residue della spalla, per ottenere la massima performance possibile nelle attività di vita quotidiane.

Nel caso in cui la terapia conservativa non dovesse ottenere i risultati sperati, mantenendosi una situazione di dolore, di limitazione funzionale, di perdita di forza e resistenza, allora sarà necessario intervenire con la chirurgia.

Le indicazioni chirurgiche hanno un’elevata validità, in tutti quei pazienti di giovane età, che hanno necessità di utilizzare la spalla con un’alta performance, sia per motivi lavorativi che sportivi.

Generalmente si interviene per via artroscopica, riducendo le problematiche della cicatrizzazione nello short time e delle possibili aderenze periarticolari associate alle rigidità nel long time.

Lesione slap 10I tipi di intervento si differenziano a seconda del danno che la slap presenta.

Si può procedere con un’asportazione (DEBRIDMENT) della pozione di tessuto cercineo danneggiato, se la struttura in questione non ha un danno molto esteso, oppure se l’articolazione non mostra danni collaterali di rilievo.

La riparazione del cercine invece è un intervento più gravoso, perché prevede la sua ricostruzione tramite l’utilizzo di viti riassorbibili e di punti di sutura, pertanto verrà utilizzato nelle lesioni complesse che vedono un’area estesa e la complicanza delle strutture tendinee associate, in particolare modo dell’ancoraggio del tendine del capo lungo del bicipite.

Proprio per quest’ultimo fattore, spesso insieme alla ricostruzione del cercine glenoideo, si deve procedere ad una tenodesi, tagliando la porzione inserzionale cercinea del capo lungo del bicipite e inserendola sulla struttura ossea omerale nella prossimità, sufficientemente stabile e funzionale.

In entrambi i casi sarà necessario procedere con un periodo di riabilitazione, ma appare intuibile che nel caso dell’asportazione, il periodo di recupero sarà sufficientemente breve, ovvero già nell’arco di 45 giorni il paziente riesce a recuperare un’autonomia più che buona, per avere un risultato ottimale e altamente performante, in un lasso di tempo che difficilmente supera i 90 giorni.

Lesione slap 11Nel caso invece della ricostruzione, quasi sempre associata alla tenodesi, il periodo è decisamente più lungo, ed inizia con un tempo di immobilizzazione della spalla in tutore per i primi 30 giorni, durante il quale è consentito di lavorare sulle zone di cooperazione biomeccanica della spalla, arrivando ad una riabilitazione completa e ad un recupero soddisfacente nell’arco di 6 mesi circa, escluse complicanze.

In definitiva la lesione slap ha molteplici aspetti che ne definiscono il danno e l’impatto sul paziente.

L’inefficienza e il dolore che causa al paziente, deve essere gestito a tutto tondo, potendo intervenire sia in maniera conservativa che chirurgica, ma proprio per la complessità dell’eventuale periodo post operatorio, vale la pena provare in prima battuta un impegno terapeutico conservativo, per poi ripiegare nella chirurgia, qualora non sia abbiano ottenuti i benefici sperati.

La salute passa attraverso la conoscenza e con l’articolo di oggi abbiamo la possibilità di aggiungere un tassello al nostro benessere.

Il menisco discoide

Il menisco discoide 01Il menisco discoide è una malformazione del menisco che presenta una forma ispessita e più chiusa del normale, in maniera parziale o subtotale, fino a poter assumere una forma a disco (motivo per il quale viene chiamato per l’appunto menisco “discoide”).

I menischi sono delle fibrocartilagini, hanno una forma di C e sono disposti sulle superfici dei due emipiatti tibiali, per aumentare la congruenza articolare e di contatto con i condili femorali, distribuendo in maniera ottimale i carichi dinamici e compressivi, ottimizzando gli accomodamenti e gli adattamenti biomeccanici del ginocchio.

Il menisco discoide 02Il menisco interno ha una forma di C aperta

Il menisco esterno ha una forma di C chiusa.

Il menisco discoide si presenta dalla nascita o meglio, dal momento in cui i menischi si sviluppano come fibrocartilagini, coinvolgendo maggiormente il menisco esterno.

La sintomatologia ha delle manifestazioni variabili, alcuni soggetti rimangono asintomatici, mentre in quelli che presentano il disagio, i segni patologici possono comparire già nell’età fanciullesca e in casi minori nell’età adulta.

Il menisco discoide 03Il paziente può accusare impaccio nella deambulazione e nell’attività fisica, associato spesso a crepitii, sensazione di scatto articolare, compressione nei movimenti massimi di flessione del ginocchio in fuoricarico e peggio ancora in carico, come ad esempio nella posizione accovacciata.

Si avverte spesso una condizione di simil blocco nel passaggio veloce dall’estensione alla flessione e dalla flessione all’estensione, associata ad un’incapacità di raddrizzamento completo della gamba rispetto alla coscia.

A tutte queste situazione generalmente si associa dolore e gonfiore articolare.

Nel tempo il menisco discoide va incontro a dano strutturale, con la formazione di una lesione parziale o di una rottura, inoltre non sono da sottovalutare le discinesie articolari che possono causare un sovraccarico sull’emirima articolare opposta, con la predisposizione alla comparsa di un’artrosi precoce.

La causa del menisco discoide ad oggi non è conosciuta, ma questa malformazione è di tipo congenita e per tanto presente dalla nascita, come precedentemente anticipato.

Il menisco discoide 04La diagnosi si esegue tramite un esame obiettivo, che tiene in considerazione l’anamnesi con la raccolta dei segni e dei sintomi riportati dal paziente.

La visita è supportata da un esame obiettivo, dove i test specifici articolari e meniscali, mostrano una sofferenza del compartimento interessato, che spingerà lo specialista a richiedere una RM.

Il menisco discoide 05L’RM è in grado di fotografare lo stato anatomico del segmento, mostrando la conformazione e l’integrità dei menischi, sia nello specifico che nei rapporti con le strutture capsulo-legamentose.

La terapia per il menisco discoide non è necessaria nei soggetti asintomatici, mentre necessita d un approccio multidisciplinare su quei pazienti che riportano una parte, o la maggior parte dei sintomi precedentemente descritti.

Il menisco discoide 06E’ necessario mettere in campo tutte quelle terapie atte a ridurre il dolore e il gonfiore articolare, focalizzando a seguire l’attenzione nel migliorare il più possibile la corretta mobilità articolare, ottimizzandone la capacità propriocettiva e migliorando il tono trofismo muscolare con l’intento di stabilizzare l’articolazione stessa.

E’ opportuno creare dei compensi articolari soprattutto a carico dell’anca, per scaricare il più possibile il lavoro dell’arto inferiore sul ginocchio.

chirurgiaNei casi in cui la fisioterapia non sia più sufficiente, si potrà perseguire la strada chirurgica, con un intervento di rimodellamento meniscale per via artroscopica, verso un ricondizionamento il più possibile congruo alla sua funzione articolare, tenendo conto dello spazio e della conformazione che si deve sposare tra il piatto tibiale e il condilo femorale.

Il periodo post operatorio prevede un tempo dovuto di riduzione del carico, tramite l’utilizzo di bastoni canadesi o delle stampelle, per un massimo di 3 settimane, associato ad un lavoro mirato di riduzione dell’edema infiammatorio, ad un recupero ed un’elasticizzazione articolare, ad un ricondizionamento della muscolatura agonista-antagonista dell’arto inferiore e ad un incremento propriocettivo dell’articolazione, per arrivare alla miglior cinestetica dell’arto inferiore rispetto al rapporto dinamico e di carico.

Abbiamo appreso che il menisco discoide è una patologia congenita che può rimanere silente per un periodo, fino al punto che non si adatti più alla richiesta di movimento specifico del paziente.

Nel momento in cui si dovesse manifestare, abbiamo vari approcci terapeutici che sono in grado di  ottenere un recupero completo del compartimento articolare, ottimizzando lo stato di salute del paziente.

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Ernia intraspongiosa di Schmorl

L’ernia intraspongiosa di SCHMORL è una particolare ernia discale che si sviluppa verticalmente, andando ad intaccare i piatti discali vertebrali, tra i quali si interpone, rovinandoli.

Anatomia

La porzione del nucleo discale erniato, può coinvolgere entrambi i piatti discali o solamente uno dei due.

Questa particolare ernia del disco, non sviluppandosi sul piano orizzontale e non migrando posteriormente, non può creare conflitti con le radici nervose o con il canale midollare, pertanto non causa una sintomatologia neurologica periferica.

L’ernia di SCHMORL può presentarsi su qualsiasi segmento vertebrale, ma generalmente compare con più frequenza negli ultimi metameri vertebrali dorsali e su quelli lombari, ovvero, dove i carichi compresivi patologici sono maggiori.

Ernia intraspongiosa di Schmorl anatomia

I sintomi dell’ ernia intraspongiosa di Schmorl

Ernia intraspongiosa di Schmorl 01I sintomi legati all’ernia intraspongiosa sono generalmente di poca rilevanza o totalmente assenti.

Solamente nel caso in cui sia particolarmente voluminosa e si estenda nella parte profonda del corpo vertebrale, può attivare una sintomatologia algica con contrattura riflessa locale, dovuta all’attivazione del ramo meningeo del nervo di riferimento segmentale.

In questo caso il dolore può essere profondo, intenso e di lunga durata, con una limitazione associata della mobilità articolare vertebrale del segmento stesso e di riflesso, dei fulcri vertebrali associati nel meccanismo di adattammo posturale e dinamico.

Nei casi dove l’ernia di SCHMORL sia particolarmente voluminosa, la casistica di frattura del corpo vertebrale può aumentare in una percentuale del 10% circa.

Le cause

Ernia intraspongiosa di Schmorl causeLe cause possono essere molteplici e di varia natura:

  • traumi compressivi (accidentali o da attività sportive che prevedano salti e cadute)
  • microtraumi ripetuti a linee verticali
  • il sollevamento protratto nello sforzo e nel tempo di carichi pesanti (attività lavorative o sport con sollevamento pesi)
  • alterazione delle posture (ipercifosi e/o verticalizzazione del segmento lombare)
  • osteoporosi
  • invecchiamento senile
  • patologie vertebrali degenerative (idiopatiche, metaboliche, infiammatorie, infettive, autoimmunitarie)
  •  patologie vascolari localizzate o sistemiche, che attivino un decadimento degenerativo, infiammatorio o addirittura necrotico della vertebra
  • fibrosità dei legamenti longitudinali vertebrali anteriori e posteriori.

Come possiamo valutare, le cause possono essere molteplici, di varia natura e possono essere predisponenti in maniera specifica o sommarsi tra di loro.

La diagnosi dell’ ernia intraspongiosa di Schmorl

rm erniaNella diagnosi la raccolta dei dati anamnestici è importante, consente di capire quali siano i sintomi riferiti dal paziente, quali siano gli eventi associabili e avere un primo canale di classificazione della patologia in essere.

Nel proseguo della denominazione della patologia, l’esame obiettivo è importante per valutare la postura del paziente, per accertarsi della presenza del dolore, della sua localizzazione, della corretta mobilità vertebrale e della presenza di contratture antalgiche riflesse.

Di fondamentale importanza è l’utilizzo di immagini diagnostiche vertebrali, fornite in varie modalità:

  • RX
  • RM
  • TC

L’immagine di ernia di SCHMORL, con la migrazione del nucleo polposo e l’avvallamento delle limitanti somatiche vertebrali, non lascia dubbii sulla denominazione della patologia.

Il trattamento

fisioterapia erniaGeneralmente l’ernia intraspongiosa è asintomatica e pertanto non necessita di cure specifiche.

Nel caso in cui sia sintomatica, allora sarà necessario procedere alla riduzione del dolore, della rigidità vertebrale, delle contratture antalgiche riflesse e al recupero delle naturali e corrette posture.

Nella fase acuta sarà utile assumere antinfiammatori, generalmente fans, antidolorifici e miorilassanti.

La fisioterapia è fondamentale per ridurre lo stato sintomatico del paziente e per correggere le posture, migliorando i carichi delle linee di forza gravitarie e dinamiche.

Sempre per merito della fisioterapia sarà possibile recuperare il corretto movimento articolare segmentale e ricondizionare la biomeccanica rispetto al coordinamento dei fulcri vertebrali e dei cingoli scapolo/pelvici.

Di grande importanza sarà il rinforzo muscolare mirato ad irrobustire la muscolatura della colonna, ottimizzandone la sinergia tra le componenti agoniste e antagoniste.

Anche la chirurgia può essere chiamata in causa, nel momento in cui si renda necessario agire con una vertebroplastica, per irrobustire e modellare il metamero eroso dall’ernia intraspongiosa.

Rari sono i casi in cui la fragilità segmentale vertebrale, richieda la stabilizzazione chirurgica mediante mezzi di sintesi.

L’ernia di SCHMORL anche se perlopiù asintomatica, non va trascurata perché è il sentore di una condizione morbosa associata che va indagata e risolta, per evitare l’instaurarsi di gravi patologie nel proseguo del tempo.

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Condropatia Femoro Rotulea

La condropatia femoro rotulea è una patologia a carico della cartilagine di rivestimento della rotula.

Condropatia Femoro Rotulea 01Anatomia

La cartilagine rotulea si riduce per eventi degenerativi o traumatici, spesso le due condizioni si associano come conseguenza nel tempo, di un rapporto causa effetto tra un trauma e una degenerazione o viceversa.

La patologia si manifesta con dolore nella zona rotula, associata a crepitio o scroscio durante il movimento del ginocchio, che il paziente stesso riferisce come una sensazione di sfregamento rumoroso durante la flessione e l’estensione.

Il ginocchio è un’articolazione formata da 3 parti ossee di cui la rotula è la porzione che ha il compito di gestire l’asse di funzionamento del quadricipite, prima che si inserisca sulla zona di aggancio tibiale denominata tuberosità tibiale.

Condropatia Femoro Rotulea 02Il femore e la tibia non sono perfettamente allineate tra di loro e per tanto non lo è neanche il quadricipite; se lo considerassimo nelle sue porzioni di giunzione osteotendinee, questo creerebbe un disassiamento e una sublussazione ogni qualvolta si facesse un movimento, facendo perdere forza ed efficacia.

Quindi possiamo affermare che la rotula crea un aggiustamento dinamico correttivo durante l’articolarità tra femore e tibia.

I carichi compressivi e di trazione sulla rotula sono eccessivi per sperare che da sola possa mantenere una corretta posizione nel movimento di scivolamento e traslazione, pertanto viene guidata e trattenuta dal bordo condiloideo femorale esterno, che è maggiormente sviluppato e dai legamenti alari che trattengono la rotula rispetto ai due condili femorali, assicurandone il corretto movimento ma anche il mantenimento della giusta posizione all’aumentare della forza di trazione del quadricipite.

Come guida al movimento della rotula rispetto al femore, troviamo una cresta sulla faccia interna della stessa, che si alloggia in uno spazio tra i condili femorali (gola intercondiloidea), direzionando il movimento della rotula quando è trazionata dal quadricipite durante la flessione del ginocchio.

La faccia interna della rotula, cosi come ogni porzione articolata, è rivestita di cartilagine, con il compito di proteggere la porzione ossea, di favorirne lo scivolamento e di ridurne gli attriti.

Condropatia Femoro Rotulea 03La condropatia femoro rotulea si sviluppa nel momento in cui si crea ripetutamente una disarmonia durante il movimento articolare di piegamento del ginocchio e del suo ritorno all’estensione, associato ai movimenti minori di accomodamento in rotazione interna ed esterna.

La cartilagine per effetto compressivo sui condili femori e sui bordi della gola intrecondiloidea, subirà una modificazione da sfregamento e da compressione che danneggerà l’integrità della cartilagine stessa, andandola a fissurare lungo la sua superficie, rovinandone l’integrità.

Da qui la comparsa del rumore durante il movimento e il dolore sulla zona rotulea.

Condropatia Femoro Rotulea 04Il dolore da cosa è dato?

Il dolore è dato dai nocicettori intrarticolari che vengono attivati dall’aumento della sensibilità ossea non più correttamente ricoperta e protetta dalla cartilagine, dal gonfiore e dall’infiammazione che si manifesta nella zona periarticolare per irritazione dei tessuti molli capsulari e sinoviali.

Anche i menischi stentano a mantenere la stessa funzionalità, perché nel momento in cui la rotula perde la sua normale funzione, i condili femorali creeranno un movimento di adattamento sulla tibia e i menischi cercheranno di compensare come possono, andando a determinare un risentimento sulla porzione della capsula articolare interna a e sul legamento collaterale interno.

La diagnosi clinica vede un test primario della rotula e del suo stato di salute, a cui sarà necessariamente associato una valutazione clinica dei menischi, della capsula articola e del legamento collaterale interno.

Condropatia Femoro Rotulea 05Diagnosi della condropatia femoro rotulea

Nella diagnostica per immagini sarà possibile valutare la situazione con una risonanza magnetica che ci mostrerà lo stato in essere della rotula nella sua posizione, nel rapporto di vicinanza rispetto alla gola intercondiloidea, lo stato in essere della cartilagine e dei tessuti periarticolari di cui abbiamo parlato prima, evidenziando o meno uno stato infiammatorio ed edematoso.

La cura prevede a livello farmacologico l’utilizzo di antinfiammatori non steroidei, eventualmente associati ad infiltrazioni di acido ialuronico, per ridurre l’infiammazione e aumentare la viscosità articolare.

Si può applicare del ghiaccio quando il gonfiore del ginocchio risulta evidente o per scopo preventivo dopo un’attività fisica prolungata.

Condropatia Femoro Rotulea 06La fisioterapia e l’osteopatia possono migliorare in maniera importante lo stato in essere del ginocchio nella condizione di condropatia, perché riescono a recuperare l’equilibrio muscolare del quadricipite rispetto alla catena posteriore dei muscoli ischiocrurali, possono far ritrovare una sinergia dell’anca rispetto al bacino e all’aspetto posturale vertebrale, in maniera da scaricare il ginocchio e la rotula da atteggiamenti di flessione accentuata.

Riescono ad equilibrare il lavoro della rotula rispetto ai legamenti interessati, rispetto alla capsula articolare e ai menischi, in maniera tale da recupera una qualità di movimento esaustivo nelle attività di vita quotidiana.

Possono ridurre il gonfiore dell’articolazione drenando la parte linfatica o vascolare venosa, che ha congestionato l’articolazione.

La condropatia femoro rotulea è un danno anatomico degenerativo che non regredisce, ma possiamo gestirla nel migliore dei modi per far sì che si stabilizzi e che non continui la sua corsa patologica oltre modo rispetto allo stato naturale di invecchiamento della persona.

Le ernie del disco rientrano?

Le ernie del disco rientrano 01Dottore mi hanno detto che le ernie del disco rientrano, ma è vero?

Questa è una domanda che spesso i miei pazienti fanno, sulla base di informazioni di dubbia provenienza da non si sa quale fonte.

Vediamo di fare chiarezza sull’argomento.

Le ernie del disco non rientrano!!! Ma sarebbe una risposta che vale la pena analizzare cercando di sviscerare l’argomento in maniera semplice ma dettagliata.

Il disco intervertebrale, posto come struttura di mezzo tra una vertebra e l’altra, è composto dal nucleo polposo e dall’anulus fibroso di contenimento.

L’anulus fibroso circonda completamente il nucleo polposo.

Le ernie del disco rientrano 02Il nucleo polposo è costituto da mucopolisaccaridi, formando una massa di tipo gelatinosa di cui l’85% della sua composizione è di acqua e per la restante parte di proteoglicani; ha la principale funzione di ammortizzatore naturale vertebrale.

L’anulus fibroso è formato da un tessuto pluristratificato, composto principalmente da collagene di tipo 1 e 2 ed ha la principale funzione di trattenere il nucleo polposo, consentendone lo spostamento controllato all’interno del disco intervertebrale, per poi imprimergli una spinta di ricentraggio nella posizione di neutralità, alla fine del movimento stesso.

Le ernie del disco rientrano 03I dischi intervertebrali hanno un’irrorazione ematica solamente nei primi anni di vita, che tende a scomparire verso i 25 anni, affidando la propria vitalità biologica al principio dell’osmosi, sfruttata per contiguità con i letti capillari vascolari dei piatti discali vertebrali, attivata tramite il movimento vertebrale stesso e i cambi di pressione.

Le ernie del disco rientrano 04I dischi intervertebrali hanno un’altezza che si differenzia a seconda del livello dove sono alloggiati.

Nel tratto cervicale l’altezza varia tra i 5 e i 6 mm, in quello dorsale tra i 3 e i 6 mm, mentre a livello lombare si aggira tra i 10 e i 15 mm.

Sia a livello cervicale che lombare, i dischi sono più alti anteriormente e meno posteriormente, mentre nel tratto dorsale tendono ad avere un’egual conformazione antero-posteriore.

Il disco intervertebrale ha una forma biconvessa e si adatta perfettamente alla superficie di alloggiamento dei corpi vertebrali.

E’ un vero e proprio ammortizzatore naturale, un antishock, che riduce le pressioni esercitate dal movimento, aumenta la capacità di mobilità vertebrale, dissipando i carichi prodotti dalla forza di gravità e dallo stesso peso corporeo.

L’ernia del disco si forma per una degenerazione del disco intervertebrale, nel momento in cui si crea una lacerazione delle fibre dell’anulus fibroso, diminuendo la capacità contenitiva del nucleo polposo, favorendone la migrazione verso la periferia.

Le ernie del disco rientrano 05Le cause più comuni della degenerazione discale sono:

  • microtraumi
  • sovraccarichi
  • alterazioni posturali
  • modificazioni biologiche.

Più fibre dell’anulus fibroso si lacerano e più il nucleo tenderà a dislocarsi verso la periferia.

Le ernie non sono tutte uguali e di distinguono tra di loro, sia per la posizione in cui si collocano e sia per le caratteristiche biologiche dell’ernia stessa.

Ma cosa sta a significare quest’ultima affermazione?

Significa che la prima valutazione che va fatta è se le ernie sono idratate o disidratate, perché in base a questo parametro, si può avere una mobilità maggiore o ridotta della porzione del nucleo polposo erniato.

Le ernie del disco rientrano 06La seconda valutazione è sulla posizione dell’ernia stessa, che si può collocare in zone diverse del canale vertebrale midollare, andando ad occupare uno spazio mediano, una porzione paramediana o affacciarsi nel frame di coniugazione.

In altre circostanze l’ernia può anche distaccarsi dalla porzione discale del nucleo polposo, abbandonando la sua collocazione intervertebrale, per migrare all’interno del canale vertebrale stesso.

Tutte queste condizioni fanno si che l’ernia, una volta decentrata dallo spazio interdiscale e collocatasi nel canale vertebrale midollare, con una migrazione generalmente progressiva, possa rimanere incarcerata nella propria posizione, perdendo di mobilità, ma ancora capace di cambiare il proprio volume.

Abbiamo capito quindi che l’ernia ha la possibilità di mobilizzarsi e la sua capacità è proporzionale rispetto a tre parametri principali:

  • il suo volume
  • la sua idratazione
  • gli effetti compressivi che subisce, ma il percorso che fa è sempre di tipo dislocativo.

Anche se volessimo, come alcuni pazienti fanno, fare un paragone con la classica ernia inguinale, dove per un indebolimento della parete addominale, il contenuto viscerale (generalmente una porzione dell’intestino) si affaccia nel canale inguinale, uscendo e rientrando a seconda degli sforzi compiuti, nel caso dell’ernia discale questo non avviene, perché la mobilità del nucleo polposo erniato è ben diversa, la consistenza del nucleo polposo erniato è ben diversa, perché i carichi e le sollecitazioni della colonna vertebrale sono ben diversi e perché lo spazio dove si colloca il nucleo polposo erniato è ben diverso.

Nel punto dove l’ernia discale trova una zona di minor resistenza, il tessuto dell’anulus fibroso si è rovinato, fino ad arrivare alla lacerazione; quella porzione di tessuto rimarrà leso per caratteristiche biologiche, per l’assenza di vascolarizzazione, per la permanenza di sollecitazioni, lasciando una strada aperta al dislocamento dell’ernia.

Concludendo……..abbiamo capito le differenze di struttura tra l’anulus fibroso e il nucleo polposo, abbiamo capito che il dislocamento dell’ernia discale è periferico, abbiamo capito che il posizionamento dell’ernia nel canale vertebrale midollare e le sue caratteristiche idratative sono importanti per definire la mobilità del nucleo erniato, abbiamo capito che le fibre dell’anulus fibroso lesionate non hanno la possibilità di rigenerarsi in maniera naturale………per tutto questo possiamo quindi dire che le ernie del disco possono stabilizzarsi o modificarsi ma non rientrano!!!

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Lussazione acromion-claveare

Lussazione acromion-claveare 02 La lussazione acromion-claveare è una condizione di perdita della congruità articolare tra la porzione laterale della clavicola e il segmento acromiale della scapola.

Lussazione acromion-claveare 02Anatomia

I due segmenti sopra citati costituiscono l’articolazione acromion-claveare, necessariamente funzionale per la meccanica articolare della spalla, coordinandone la rotazione, l’elevazione, l’abduzione e aggiustandone il movimento in maniera adattativa.

La spalla per poter funzionare bene nella complessità dei suoi movimenti, necessita della sinergia di 5 articolazioni, di cui 3 biomeccanicamente vere e 2 di scorrimento; l’articolazione acromion-claveare è un’articolazione vera che fa parte del quintetto.

Lussazione acromion-claveare 03I capi articolari acromion-claveari sono rivestiti di cartilagine, con una distanza fisiologica tra di loro di circa 11-13 mm. e il loro equilibrio articolare è garantito da una serie di legamenti che ne conferiscono stabilità sia statica che dinamica:

  • leg.acromion-clvicolare (il fascio superiore e posteriore sono particolarmente importanti)
  • leg.conoide
  • leg.trapezoide.

Nell’evento lesivo, il profilo articolare mostrerà una deformazione anatomica più o meno rilevante, associata ad un dolore locale intenso, che irradierà nella zona deltoidea e del trapezio, manifestando una limitazione articolare nei movimenti ampi di elevazione, di abduzione e rotazione.

Classificazione della lussazione acromion-claveare

La lussazione in questione ha una classificazione ben precisa che utilizza la scala di valutazione di ROCKWOOD, associando il quadro anatomopatologico a quello radiografico.

La classificazione vede ben 6 differenziazioni lesive:

  • Tipo I: Clavicola non sollevata rispetto all’acromion
    • Legamenti acromion-clavicolari: lievemente stirati
    • Legamenti coraco-clavicolari (trapezoide, conoide): intatti
    • Capsula Articolare: intatta
    • Muscolo Deltoide: intatto
    • Muscolo Trapezio: intatto
  • Tipo II: Clavicola sollevata ma non oltre il bordo superiore dell’acromion
    • Legamenti acromion-clavicolari: rotti
    • Legamenti coraco-clavicolari (trapezoide, conoide): elongati
    • Capsula Articolare: rotta
    • Muscolo Deltoide: lievemente distaccato
    • Muscolo Trapezio: lievemente distaccato
  • Tipo III: Clavicola sollevata oltre il bordo superiore dell’acromion ma con una distanza coraco-clavicolare minore del doppio rispetto al normale (< 25 mm)
    • Legamenti acromion-clavicolari: rotti
    • Legamenti coraco-clavicolari (trapezoide, conoide): rotti
    • Capsula Articolare: rotta
    • Muscolo Deltoide: distaccato
    • Muscolo Trapezio: distaccato
  • Tipo IV: Clavicola lussata posteriormente
    • Legamenti acromion-clavicolari: rotti
    • Legamenti coraco-clavicolari (trapezoide, conoide): rotti
    • Capsula Articolare: rotta
    • Muscolo Deltoide: distaccato
    • Muscolo Trapezio: distaccato
  • Tipo V: Clavicola considerevolmente sollevata con una distanza coraco-clavicolare più del doppio rispetto al normale (> 25 mm)
    • Legamenti acromion-clavicolari: rotti
    • Legamenti coraco-clavicolari (trapezoide, conoide): rotti
    • Capsula Articolare: rotta
    • Muscolo Deltoide: distaccato
    • Muscolo Trapezio: distaccato
  • Tipo VI: Clavicola lussata inferiormente al di sotto del tendine congiunto (rara)
    • Legamenti acromion-clavicolari: rotti
    • Legamenti coraco-clavicolari (trapezoide, conoide): rotti
    • Capsula Articolare: rotta
    • Muscolo Deltoide: distaccato
    • Muscolo Trapezio: distaccato

I sintomi della lussazione acromion-claveare

La sintomatologia, come accennavamo precedentemente, è caratterizzata nella fase acuta dell’evento traumatico, dalla comparsa di dolore nella zona articolare che si va ad esacerbare sia alla palpazione, sia durante i movimenti passivi e ancor peggio in quelli attivi.

Lussazione acromion-claveare 05Il dolore oltre ad essere localizzato, tende ad irradiarsi sulla zona del trapezio, del collo, del deltoide e del pettorale alto (al disotto del bordo clavicolare), portando il paziente ad adottare un’atteggiamento di difesa antalgica che si presenterà con il braccio addotto, adeso al torace, con la spalla risalita verso l’alto e con il capo leggermente inclinato dalla parte del lato leso.

La mobilità tende a diminuire in maniera proporzionale in base al tipo di lesione che il paziente riporta nella lussazione e i piani articolari che saranno coinvolti maggiormente, saranno quelli dell’elevazione, dell’abduzione e delle rotazioni.

Si evidenzia un gonfiore di tipo edematoso più o meno marcato, a seconda del tipo di lussazione che il paziente ha subito.

Lussazione acromion-claveare 06La lussazione acromion-claveare è catalogata tra gli infortuni più frequenti della spalla negli sport da contatto o da impatto, dove un trauma diretto sulla scapola, sulla clavicola, o indiretto tramite la leva omerale, possono creare una lesione da elongazione o da rottura delle componenti legamentose precedentemente citate, arrecando un’instabilità e una perdita di congruità dei capi articolari.

E’ possibile riscontrarla anche negli incidenti stradali, dove la cintura di sicurezza nel suo arresto, crea una compressione violenta direttamente nella zona della clavicola, diversante dalla scapola che invece rimane libera.

 

La diagnosi

La diagnosi verrà fatta dopo un’attenta anamnesi, cercando di capire il tipo di trauma che il paziente ha subito e il meccanismo lesivo a cui è andato incontro.

Lussazione acromion-claveare 07L’esame obiettivo valuterà la conformazione o meglio la deformazione articolare manifesta, associandola a test di valutazione del dolore indotto, della mobilità passiva dell’articolazione acromion-clavicolare stessa, con il caratteristico segno del tasto del pianoforte (applicando una spinta verticale sulla clavicola nella sua porzione distale, ci sarà inizialmente un abbassamento della stessa, per poi risalire oltre misura al termine della pressione imposta).

Va studiata la perdita di funzione del braccio nei vari piani articolari, sia in un movimento indotto che nel movimento attivo richiesto al paziente.

Importantissima sarà la valutazione correlata di indagini radiografiche specifiche, per valutare la congruità articolare tra acromion e clavicola distale, cosi come sarà importantissimo il supporto diagnostico tramite indagine RM, che valuterà lo stato anatomico delle strutture muscolo-tendinee e capsulo-legametose articolari e periarticolari, associate o meno a versamenti edematosi di tipo infiammatorio o vascolare lesivo.

Il trattamento della lussazione acromion-claveare

Il trattamento della lussazione acromion-claveare sarà di tipo conservativo o di tipo chirurgico, a seconda della classificazione lesiva di cui fa parte.

Le tipologie 1 e 2 faranno un trattamento di tipo conservativo.

Le tipologie di tipo 4,5,6 avranno un approccio terapeutico di tipo chirurgico.

Lussazione acromion-claveare 08La tipologia 3 è quella più controversa perché essendo una lesione di tipo borderline, può ottenere dei buoni risultati sia con un approccio conservativo che chirurgico.

Il trattamento di tipo conservativo avrà una linea terapeutica su più fronti.

Il paziente utilizzerà da subito un tutore per circa 3 settimane, che imporrà una spinta cranio caudale per abbassare la clavicola, mentre la scapola viene retroposta e il braccio mantenuto in sospensione.

E’ importante valutare il corretto posizionamento del tutore, con effetto di riduzione della lussazione mediante esame radiografico, che andrà poi ripetuto a distanza di 7 giorni, per assicurarsi che il ripristino della congruenza articolare sia stato mantenuto.

Il tutore ha chiaramente il compito, oltre che di riposizionare i capi articolari in maniera congrua, di mettere a riposo l’articolazione, velocizzando i tempi di ripresa delle strutture capsulo-legamentose.

Sarà importante utilizzare ghiaccio e antinfiammatori per ridurre gli effetti dell’infiammazione in maniera veloce.

La fisioterapia ha un ruolo fondamentale per la riduzione dell’edema, per la risoluzione delle contratture antalgiche riflesse attivate dal dolore, per il riequilibro delle catene agoniste-antagoniste, per il ripristino del completo ROM articolare e il recupero della forza e della resistenza muscolare.

Lussazione acromion-claveare 09Il trattamento chirurgico che sia a cielo aperto o in artroscopia, ha lo scopo di rendere l’articolazione acromion-claveare nuovamente stabile, ripristinandone il profilo articolare in maniera stabile.

Va specificato che l’approccio chirurgico si differenzia su un evento acuto e su una condizione di cronicità.

Nell’approccio chirurgico in fase acuta, la stabilizzazione può avvenire attraverso l’innesto di placche, viti e fili direttamente sull’articolazione, oppure tramite l’ancoraggio dei legamenti coraco-clavicolari.

Nel caso di un’instabilità cronica, dove persiste uno slivellamento apprezzabile e sintomatico, con la persistenza del dolore associato alla perdita di forza, per un tempo superiore alle 3 settimane dal primo intervento riparativo, la strada chirurgica si differenzia  nella strategia di intervento, che propenderà non più alla riparazione, bensì alla ricostruzione della stabilità legamentosa dell’articolazione sul piano frontale e trasversale, il più possibile simile alla normale anatomia.

Lussazione acromion-claveare 10Dopo l’atto chirurgico sia di tipo acuto che cronico, sarà fondamentale sottoporre il paziente a un percorso riabilitativo, volto alla risoluzione del dolore, dell’edema post operatorio, per poi proseguire nel recupero articolare passivo, fino a restituire al paziente la capacità di articolare la spalla in maniera autonoma, stabilizzandola con un tono-trofismo muscolare capace di guidare l’articolazione in maniera congrua, offrendo allo stesso tempo una protezione alle sollecitazioni meccaniche.

Come abbiamo visto, la lussazione acromion-claveare, ha vari gradi di classificazione e in base al tipo di lesione, il recupero del paziente avrà un iter diverso per tempi e complessità di intervento.

Com’è ormai chiaro dalla lettura dell’articolo, la tempestività di intervento e la precisione nella diagnosi è fondamentale per ottimizzare la guarigione ed accelerare i tempi di ripresa della funzionalità sia nelle attività di vita quotidiana che in quelle sportive.

La salute passa attraverso la conoscenza e con l’articolo di oggi abbiamo la possibilità di aggiungere un tassello al nostro benessere.