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Osteonecrosi e Infarto Osseo

Osteonecrosi e Infarto Osseo 01L’infarto osseo e l’osteonecrosi sono due condizioni sequenziali strettamente correlate tra di loro, ovvero l’infarto osseo conduce all’osteonecrosi.

Ma cos’è l’infarto osseo?

E’ una condizione di forte riduzione della vascolarizzazione del tessuto osseo, che può comparire sia nella porzione di osso trasecolare, sia nella parte di giunzione periostale.

Lo stato di ipossia cellulare prolungata, o di violenta anossia, porta ad una necrosi della massa ossea (osteonecrosi), più o meno estesa a seconda dell’area coinvolta dalla lesione vascolare.

L’area ossea che ha subito la morte cellulare va successivamente incontro ad un processo di guarigione e di riparazione, il quale non sempre riesce a portare a termine il suo percorso, perché se subisce un considerevole carico statico e/o dinamico, rischia il collasso della struttura e la deformità ossea, prima che il processo ripartivo abbia portato a compimento il suo processo.

Osteonecrosi e Infarto Osseo 02Ovviamente tale discorso diventa più o meno grave a seconda dell’estensione dell’area necrotica.

Generalmente l’osteonecrosi coinvolge la parte estrema delle ossa lunghe, interessando spesso anche le cartilagini di rivestimento dei capi articolari, le quali subiranno delle deformazioni per il cedimento della porzione ossea sottostante.

Le ossa maggiormente colpite sono in ordine di percentuale:

  • il femore nella porzione prossimale della testa del femore
  • il ginocchio nella porzione prossimale della tibia e quindi del piatto tibiale
  • la testa dell’omero
  • l’articolazione del polso
  • l’articolazione della caviglia.

Nelle prime fasi della lesione vascolare, l’infarto osseo può rimanere silente, se limitato ad un porzione ossea di minute dimensioni, oppure se l’area interessata, seppur vasta, mantiene la capacità di resistere ai carichi compressivi.

Il dolore

Osteonecrosi e Infarto Osseo 03Nel momento in cui l’osso collassa e si deforma, il dolore si manifesta sia localmente, per l’interessamento della porzione periostale largamente innervata e sia per il manifestarsi di un’impotenza funzionale articolare, associata ad una reazione muscolare di tipo antalgica riflessa.

In questo caso il dolore aumenta nella posizione eretta e durante il carico dinamico, mentre diminuisce a riposo e in posizione di scarico.

Differente sarà il discorso per le articolazioni dell’arto superiore come la spalla e il gomito, dove il dolore si acuisce maggiormente durante il movimento e la presa di oggetti con la mano, soprattutto se pesanti e con il braccio lontano dal corpo.

Anche nelle posizioni supine di scarico, il dolore articolare può essere presente se la patologia ha innescato un processo secondario di sinovite periarticolare, con un gonfiore che peggiora con la riduzione del drenaggio autonomo al movimento.

Le cause

CauseLe cause dell’infarto osseo e della conseguente osteonecrosi, sono da imputare principalmente ad una condizione di anomalia vascolare specifica o multifattoriale, che possa ridurre l’apporto di sangue ossigenato e del materiale di nutrimento al tessuto irrorato.

Sono molti gli eventi, le patologie e i dismetabolismi, che possono portare a tale condizione, pertanto dividiamo in due macro categorie le eziologie necrotizzanti:

  • le osteonecrosi traumatiche, dovute ad eventi estremi, che comportano la frattura o la lussazione di quelle strutture ossee che hanno una circolazione terminale, o con una ridotto circolo anastomotico collaterale, come nella testa del femore o nell’osso scafoideo del polso; è da queste situazioni che l’evento traumatico rischia di danneggiare gravemente anche il corretto apporto vascolare osseo, sviluppando una necrosi ossea
  • le osteonecrosi non traumatiche, dovute a fattori che possono inefficace il sistema di nutrimento osseo in maniera singola o multifattoriale.

Tra le varie cause troviamo: l’abuso di alcol, l’abuso di fumo di sigaretta, l’utilizzo eccessivo e prolungato di corticosteroidi, malattie autoimmunitarie che coinvolgono il tessuto connettivo e vascolare, alterazioni patologiche della coagulazione del sangue, postumi di terapie radianti e chemioterapiche, patologie dismetaboliche epatiche, pancreatiche, renali, fino ad arrivare alle patologie da decompressioni.

L’osteonecrosi di origine non traumatica ha una percentuale di sviluppo bilaterale pari al 60%, con un’incidenza maggiore a carico del femore, nella porzione prossimale articolare dell’anca.

La diagnosi

Osteonecrosi e Infarto Osseo 04Per diagnosticare la necrosi ossea, soprattutto dopo aver subito un evento traumatico fratturativo o dislocante, oppure in tutte quei pazienti che in un quadro anamnestico, riportano condizioni cliniche e/o terapeutiche sospette all’evoluzione dell’infarto osseo, è assolutamente necessario avvalersi di indagini diagnostiche quali RX, RM, TC, capaci di individuare alterazioni areolari della matrice ossea contenute in minima quantità, oppure alterazioni sclerotiche della porzione di passaggio periostale/trabecolare, associate ad edema intraspongioso e nei casi più gravi accompagnate da un’alterazione della naturale conformazione perimetrica, come conseguenza del collasso strutturale osseo, capace di evolvere fino allo sviluppo di vere e proprie fratture.

Se la necrosi è associata a patologie autoimmunitarie del tessuto connettivo, sarà facile riscontrare un’alterazione della capsula articolare, con un aumento del contenuto liquido di tipo infiammatorio.

Il trattamento

Il trattamento dell’osteonecrosi prevede l’utilizzo di una strada conservativa e di una chirurgica.

La strada conservativa tende a diminuire il dolore, il quale se acuto e persistente, ha tra i vari effetti collaterali, quello di ridurre l’afflusso vascolare arterioso per effetto riflesso del sistema neurovegetativo.

Nelle localizzazioni associate agli arti inferiori, si tende a ridurre il carico statico e dinamico per evitare la deformazione ossea, fino alla ripresa inoltrata del processo ripartivo.

Risultano essere utili anche i percorsi fisioterapici con elettromedicali e senza, per stimolare la biologia cellulare ossea, mantenendo il trofismo muscolare capace di coadiuvare la corretta disposizione cellulare osteoblastica rigenerativa.

FarmaciOvviamente andranno eliminati o fortemente contenuti ove possibile, l’utilizzo di terapie con corticosteroidi ad ampio dosaggio e per periodi prolungati.

Anche le abitudini di vita vanno curate riducendo drasticamente l’utilizzo di alcol e del fumo di sigaretta.

A livello farmacologico la somministrazione dei bifosfonati, può accelerare il processo di guarigione.

Nel caso in cui l’osteonecrosi abbia avuto un’evoluzione importante su vasta scala e la regressione ne risulta da principio insperata, si può procedere con un trattamento chirurgico.

La chirurgia può adottare varie strade che variano dalla decompressione centrale chirurgica semplice, alla decompressione centrale con innesto osseo vascolarizzato e non.

Questa tecnica si effettua con delle incisioni o con delle perforazioni, che hanno il compito di stimolare la rigenerazione cellulare nel contesto di una riduzione della pressione intraossea.

Viene utilizzata nelle ossa lunghe quando l’area necrotizzata ha una superficie ridotta, oppure nelle ossa corte.

E’ una metodica che offre delle ottime risposte ed un rischio contenuto, ma necessita l’attenzione di mantenere uno scarico decrescente statico e/o dinamico per circa 30-45 giorni.

ChirurgiaUn’altra strada utilizzata nell’approccio chirurgico è quella di attuare un’osteotomia con innesto osseo, concettualmente simile alla precedente ma più complessa nell’esecuzione.

Viene utilizzata quando l’area osteonocretica è vasta e sulle ossa lunghe.

Anche in questo caso sarà necessario far osservare al paziente, un periodo di scarico decrescente statico e/o dinamico, che può prolungarsi fino a 180 giorni circa.

Quando il danno anatomico è particolarmente grave, tanto da aver portato ad un collasso dell’osso stesso e conseguentemente ad un cambio di morfologia della struttura ossea ed articolare, la strada con i maggiori risultati è quella della protesizzazione, ovvero della sostituzione dell’intera articolazione con una artificiale dalle caratteristiche compatibili.

In questo caso la ripresa è diversa in base al tipo di protesi utilizzata in relazione all’articolazione danneggiata.

Osteonecrosi e Infarto Osseo terapiaIn ogni caso, indipendentemente dal tipo di intervento programmato, sarà necessario osservare un periodo di riabilitazione mirato alla riduzione del dolore, dell’eventuale edema post chirurgico, al ricondizionamento della cicatrice associata ad eventuali aderenze e al recupero dell’articolarità.

Osteonecrosi e Infarto Osseo esrciziIn seconda battuta sarà necessario ottimizzare il tono-trofismo articolare e il recupero della propriocettività posizionale e dinamica.

L’infarto osseo e la conseguente osteonecrosi, è una condizione patologica subdola che sintomaticamente può manifestarsi anche a distanza di mesi dall’evento scatenate.

È una condizione che può portare ad un precipitare di conseguenze causa/effetto altamente destabilizzanti e disabilitanti, pertanto è assolutamente consigliato procedere con attenzione, affidandosi allo specialista del caso.

La salute passa attraverso la conoscenza e con l’articolo di oggi abbiamo la possibilità di aggiungere un tassello al nostro benessere.

Sacroileite

Sacroileite 01La sacro liete è un’infiammazione localizzata all’articolazione sacro-iliaca.

Negli anni precedenti tale segmento, non veniva considerato come una vera e propria articolazione, perché considerata semplicemente un punto di giunzione tra l’osso impari del sacro e le due porzioni iliache.

Sacroileite 02Ad oggi invece studi accurati, supportati anche da esami strumentali quali rx con un angolo di 30°, rm e tc, hanno constatato il reale apporto biomeccanico, che tale giunzione articolare crea, per un adattamento sia statico che dinamico nel trasferimento di carichi nelle linee discendenti tra la colonna vertebrale e il bacino e nelle linee ascendenti tra l’arto inferiore ed il bacino.

Si può pertanto definire l’articolazione sacro-iliaca, un vero e proprio punto di passaggio tra la colonna e l’arto inferiore, dove il bacino diventa un punto di snodo fondamentale per il corretto funzionamento del cingolo pelvico.

Nella sacro-ileite il paziente riferisce dolore nella zona sacro-ilica, indicandola in maniera puntiforme o irradiata, monolateralmente o bilateralmente.

Sacroileite 03Vediamo insieme qual’è la topografia del dolore:

  • zona di giunzione tra sacro e iliaco e quindi nell’area postero superiore del bacino, ad un palmo di mano dalla linea mediana
  • regione lombare inferiore, puntiforme nella porzione postero laterale
  • regione glutea
  • regione posteriore della coscia.

La sacro-ileite, può avere un andamento sintomatico ad intermittenza, oppure costante, con dei picchi di dolore che rendono la persona inabile ad effettuare i movimenti minimi nelle attività di vita quotidiana.

Le cause che portano alla manifestazione infiammatoria articolare sono molte:

  • traumi
  • artrite (tra le principali troviamo la pelvi-spondilite anchilosante, l’artrite reumatoide, l’artrite psoriasica, l’artrite reattiva, il lupus eritematoso, la gotta)
  • infezioni di tipo batterico sia locali, che a distanza, per interessamento di organi o strutture terze
  • elongazioni e stiramento dei legamenti sacro-iliaci sia nella porzione anteriore che posteriore
  • gravidanza.

Negli eventi traumatici, nei disturbi legamentosi o di tipo infettivo, il dolore si manifesta in maniera monolaterale, mentre in tutte le altre situazioni, il sintomo doloroso tende ad essere bilaterale, indipendentemente dal fatto che possa essere simmetrico o meno.

Va assolutamente ricordato che nello sviluppo della patologia, ci possono essere delle concause capaci di accelerare l’instaurarsi della sacro-ileite, come lo stare molto tempo fermo in piedi, correre, saltare, camminare con una falcata eccessivamente lunga, avere delle posture scorrette, che influenzano il bacino nelle sue interrelazioni con la colonna vertebrale e con le anche.

La diagnosi di sacro-ileite, necessita di un’anamnesi in grado di raccogliere i segni e i sintomi del paziente, riferiti sia nello sviluppo della patologia, sia nella sua evoluzione e valutare se vi è associata una storia di infezione batterica o di familiarità nello sviluppo di patologie autoimmunitarie e artritiche.

A seguire sarà necessario un attento esame obiettivo, per valutare la topografia del dolore, l’esacerbazione del dolore alla palpazione e nella richiesta di movimenti attivi e indotti, in concomitanza alla valutazione delle funzioni residue in ambito biomeccanico e muscolare.

Sacroileite 04Nella diagnosi sarà quasi sempre necessario associare lo studio tramite indagini diagnostiche, valide sia nell’utilizzo di rx che in quello di rm e tc.

L’rx e ancor meglio la tc, saranno in grado di valutare l’alterazione anatomica della zona articolare con un cambiamento di morfologia, mentre la rm potrà valutare in maniera dettagliata, il quadro anatomo-patologico dei tessuti molli periarticolari.

Anche gli esami di laboratorio hanno un peso rilevante, nel momento in cui è necessario studiare la presenza di alterazioni infettive, metaboliche, o di tipo autoimmunitario.

Il trattamento della sacro-ileite ha sempre una partenza conservativa, mirata alla riduzione del dolore e alla ripresa della funzionalità dell’apparato locomotore locale e di relazione.

La terapia farmacologica sarà modulata sul paziente a seconda delle cause che hanno innescato la patologia.

Pertanto si potrà procedere con la somministrazione di:

  • antinfiammatori FANS
  • cortisonici
  • farmaci inibitori del TNF alfa
  • miorilassanti.

Sacroileite 05Il riposo e l’applicazioni del ghiaccio, sono sempre utili nella gestione del dolore della sacro-ileite, anche se in maniera aspecifica.

La fisioterapia è fondamentale per poter recuperare la funzione muscolo articolare e propriocettiva persa, in una condizione tanto acuta quanto cronica, così com’è importante nella gestione del dolore stesso.

Sacroileite 06Nel caso in cui la sacro-ileite non risponda a nessuna terapia sopra indicata, si può pensare all’utilizzo di una strada chirurgica, dove vengono presi in considerazioni vari percorsi, tra cui l’artrodesi dell’articolazione stessa, ovvero la fusione delle due giunzioni articolari, così come può essere valutata la denervazione, tramite radiofrequenza, dei rami neurologici periferici che raccolgono le informazioni nocicettive della zona articolare, così come si può optare per l’innesto di stimolatori elettrici per modulare l’afferenza sensoriale articolare e periarticolare.

Come sempre l’attività chirurgica può essere una strada praticabile, ma va attentamente valutato il bilancio tra rischi e benefici di un’intervento che modifica in maniera definitiva, lo stato in essere delle strutture anatomo-funzionali in discussione.

In conclusione la sacro-ileite è una patologia invalidante, sia nella situazione acuta quanto in quella cronica, ma le conoscenze scientifiche e quelle anatomopatologiche, ci mettono nella condizione di poterla gestire in maniera efficace, senza dover ricorrere in prima battuta, ad interventi invasivi.

È ovvio che in una situazione del genere, anche una volta spenta la patologia, si dovrà istruire il paziente ad adoperare quelle accortezze, che possano evitare il ripresentarsi della sacro-ileite, delimitando i fattori di commorbilità nella loro attivazione.

La salute passa attraverso la conoscenza e con l’articolo di oggi abbiamo la possibilità di aggiungere un tassello al nostro benessere.

Ernie muscolari miofasciali

Ernie muscolari miofasciali 01Le ernie muscolari, in ambito medico chiamate anche con il nome di ernie miofasciali, sono delle protuberanze di fibre muscolari attraverso il tessuto fasciale di contenimento.

Il tessuto fasciale è una guaina, una lamina o qualsiasi altra aggregazione di tessuto connettivo dissezionabile, che si forma sotto la pelle, per unire, racchiudere e separare muscoli e altri organi interni.

Il sistema fasciale consiste nel continuum tridimensionale dei tessuti connettivi fibrosi, contenenti collagene, lassi e densi, fornendo un ambiente che consente a tutti i sistemi di funzionare in modo integrato.

Le ernie muscolari possono essere singole o multiple, con origine acquisita, nella maggior parte dei casi e, meno frequentemente, di tipo congenite.

Ernie muscolari miofasciali 02Si manifesta un assottigliamento e/o una lacerazione segmentale della fascia, con la protrusione di fibre muscolari dall’apertura fasciale, in maniera eccentrica.

Le lesioni acquisite possono essere causate da attività sportiva, traumi di tipo lesivo o contusivo, infortuni sul lavoro, o secondarie ad interventi chirurgici che prevedono l’incisione della fascia di contenimento di uno o più tessuti, come nelle fasciotomie per sindromi compartimentali.

Le lesioni fasciali acquisite possono essere favorite anche da una minor resistenza nei punti di passaggio di nervi e vasi perforanti, che generano un’apertura naturale del tessuto fasciale.

Le ernie muscolari possono coinvolgere con più frequenza i muscoli degli arti superiori ed inferiori.

Questa condizione erniaria è generalmente indolore, ma se non curata e mal gestita, può causare algia, soprattutto durante gli sforzi fisici segmentali prolungati, che aumentando il volume dell’erniazione muscolare, può causare un’intrappolamento delle fibre muscolari nel pertugio fasciale, causando un’ischemia transitoria delle fibre stesse.

Ernie muscolari miofasciali 03Nel caso di erniazione muscolare da evento traumatico, il dolore può manifestarsi in maniera acuta, con la presenza di un edema associato, ed una riduzione della forza e della resistenza segmentale.

Come accennato all’inizio dell’articolo le ernie muscolari possono essere acquisite o congenite.

Questa distinzione sta a significare che parlando di eventi acquisiti, nella maggior pare dei casi, il tessuto fasciale di contenimento è sano, ma per eventi associati, subisce una lesione diretta o indiretta, mentre nelle situazioni congenite, c’è un alterazione biologica del tessuto connettivo fasciale che lo rende maggiormente fragile, perdendo le capacità meccaniche.

Ernie muscolari miofasciali 04Tra gli eventi acquisiti troviamo:

-trauma diretto lacerativo

-trauma diretto contusivo

-microtraumi ripetuti

-sforzi fisici eccessivi e lungamente protratti

-postumi secondari da intervento chirurgico che prevedono l’incisione della fascia di contenimento di uno o più tessuti.

Tra le cause congenite troviamo:

-patologie autoimmunitarie che coinvolgono il tessuto connettivo come la sindrome di Sjogren, il lupus eritematoso, la sclerosi sistemica e similari.

Va ricordato che i punti di accesso nel tessuto fasciale dei tronchi nervosi periferici e dei vasi vascolari, possono favorite una minor resistenza nei punti di passaggio, che generano un’apertura naturale del tessuto fasciale.

Nella valutazione diagnostica, l’esame obiettivo ed un’anamnesi approfondita che raccolga i dati del paziente inerenti alla patologia, sono di fondamentale importanza.

L’ernia muscolare si evidenzia in maniera visiva, durante la contrazione muscolare concentrica a carico libero e in maniera maggiore in controresistenza.

Ernie muscolari miofasciali 05A livello palpatorio, nel punto dell’ernia muscolare, si apprezza una zona di minor resistenza del tessuto, con la sensazione di affondare oltremisura nel tessuto erniato.

Nel caso di trauma sarà evidente anche una zona di tumefazione più o meno estesa.

A livello strumentale, le indagini che maggiormente sono in grado di definire la condizione di ernia muscolare è l’ecografia, eseguita sia a riposo che in dinamica, capace di vedere come le fibre muscolari si protrudono nel pertugio fasciale.

Ernie muscolari miofasciali 06Anche la RM è un eccellente esame diagnostico, in grado di valutare lo stato anatomico dei tessuti molli muscolari e fasciali.

L’approccio alle ernie di piccole dimensioni generalmente non richiede cure specifiche, ma vengono gestite con l’ottimizzazione di un attività fisica che possa essere coerente con la patologia stessa.

Ernie muscolari miofasciali 07Nel caso in cui invece si trovi associata un’algia di tipo ischemico e/o una tumefazione associata, sarà di grande importanza drenare la zona edematosa e migliorare l’elasticità fasciale della zona erniata, per poi utilizzare dei manicotti elastici di contenimento della zona erniata.

Il trattamento chirurgico è necessario solo se i sintomi sono gravi o invalidanti.

Tra le strade chirurgiche utilizzate, c’è la chiusura diretta del pertugio fasciale sede dell’ernia muscolare, ma va detto che questa scelta non è priva di rischi, perché il paziente può andare incontro allo sviluppo di una sindrome compartimentale, che potrebbe richiedere a posteriori, una fasciotomia, invalidando il trattamento riparativo stesso.

Un’altra strada chirurgica utilizzabile è la fasciotomia segmentale, ma questa metodica produrrebbe ulteriori deformità muscolari e una alterazione del feedback dei meccanocettori nella contrazione e nel rilasciamento muscolare, sia a livello segmentale che nelle relazioni delle catene miofasciali.

Sembra ci siano dei buoni riscontri nell’utilizzo di tecniche riparative, per mezzo del tessuto sintetico chiamato FASCIA CTP, con un riscontro efficace sia nella gestione dell’intervento e sia nella ripresa funzionale.

Ernie muscolari miofasciali 08In ogni tipo di intervento chirurgico applicato, sarà necessario ottimizzare il recupero del paziente, tramite un percorso riabilitativo, mirato alla prevenzione delle possibili aderenze post intervento, nella gestione dell’eventuale comparsa di edemi locali e nel ristabilire il miglior equilibrio muscolare, integrato alle catene fasciali locali e a distanza e sia nel reclutamento delle fibre muscolari i fase di contrazione e in fase di allungamento.

In conclusione l’ernia muscolare è una condizione dalle molteplici varianti cliniche, può essere  facilmente gestibile, oppure andare in contro ad una strada terapeutica importante, ma in entrambi i casi le possibilità di recupero sono alte.

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Prevenzione e terapia

PREVENZIONE E TERAPIA_01La prevenzione e la terapia sono due facce della stessa medaglia che mirano alla gestione della salute del cittadino, in forme diverse ma complementari, che se unite tra di loro danno il massimo del risultato nel breve, medio e lungo periodo, in rapporto alla degenerazione biologica del corpo umano, inevitabile per il tempo che passa, per le attività di vita quotidiana e gli ambienti in cui viviamo.

C’è un’enorme differenza tra lasciare a se, o peggio trascurare il proprio corpo nel suo decadimento, affrontando le patologie nel momento in cui si manifestano e monitorare lo stato di salute con costanza ma senza eccessi, accorgendosi per tempo dei cambiamenti patologici che insorgono nell’organismo.

Cerchiamo di capire insieme questo importante argomento.

PREVENZIONE E TERAPIA_02La prevenzione ha il compito di ridurre la forza distruttiva della patologia agendo sul principio che prima la si riesce a diagnosticare e meglio la si può affrontare, tale concetto si basa su molteplici fattori quali:

  • diagnosi precoce che permette di mettere in campo una terapia mirata da subito
  • riduzione e contenimento dei danni biologici legati al tipo di patologia
  • gestione degli effetti collaterali
  • riduzione del rischio di morbilità con organi di relazione diretta e indiretta.

La prevenzione si costituisce di 3 stadi fondamentali e di 1 aggiuntivo.

Prevenzione primaria

Si promuove la salute al cittadino mediante regole di buon comportamento su ogni fronte:

  • alimentazione
  • norme igieniche
  • posture lavorative corrette
  • attività fisica
  • riposo
  • fattori di rischio batterico virali
  • fattori di rischio biologici
  • emotività e aspetti psicologici

Prevenzione secondaria

Si basa sulla diagnosi precoce, concetto per il quale non si evita l’insorgenza della patologia, ma si cerca si individuarla nei suoi stadi primari, tanto da poterla aggredire e gestire con tutta la capacità terapeutica a nostra disposizione.

Dobbiamo riflettere sul fatto che le malattie hanno un loro sviluppo, queste stesse possono convivere con la biologia della persona fino ad un certo punto, individuale per ogni tipo di patologia rispetto alla persona nella quale si sviluppa, oltre il quale la patologia prende il sopravvento arrecando danni in molti casi irreparabili.

Prevenzione terziaria

Si occupa di evitare la comparsa di complicanze e recidive rispetto alla patologia insorta e già riscontrata.

È facile intuire che la malattia può essere aggredita e in molti casi sconfitta, ma senza prevenzione terziaria non si può evitare che si ripresenti o che sviluppi delle complicanze legate all’organo stesso o a quelli contigui, così come non si potrebbe evitare che si sviluppi la stessa patologia recidivando.

La prevenzione quaternaria

Sviluppa il concetto di ipermedicalizzazione, ovvero l’eccesso di utilizzo di accortezze, di farmaci e di cure in generale, possono essere anche loro una fonte di sviluppo di patologie, perché il corpo va aiutato nel momento del bisogno e va tutelato da quelli che sono i fattori di rischio, ma non va sostituita l’autonomia biologica nella gestione della malattia oltre misura.

Ben diverso è il concetto di terapia, che vede varie forme di applicazione.

PREVENZIONE E TERAPIA_03La terapia mira ad affrontare una patologia nella sua genesi e nella relazione che essa ha all’interno dell’organismo e della struttura dove si é sviluppata.

Il trattamento terapeutico non si limita a curare solamente la patologia ma anche le complicanze che essa stessa può causare.

In alcuni casi la cura è riparativa o sostitutiva dei danni manifesti, che non sono reversibili in maniera spontanea.

È d’obbligo ricordare che non tutti i tessuti umani rigenerano, pertanto sarà il tessuto stesso che accoglie la patologia a determinare uno dei fattori di gravità.

Le terapie si dividono in varie forme:

  • farmacologiche
  • fisioterapiche / riabilitative
  • chirurgiche

Queste prime 3 categorie sono legate alla cura fisica del paziente, tanto per far regredire una patologia, tanto per debellarla definitivamente, tanto per circoscriverla.

  • psicologiche

PREVENZIONE E TERAPIA_04Servono a gestire la salute mentale ed emotiva della persona che il più delle volte riporta delle interazioni spiacevoli con la fisicità del corpo.

  • palliative

Sono terapie che alleviano i sintomi ma non sono curative, ovvero riducono gli effetti che la patologia provoca sul corpo del paziente, ma non sono in grado di curarne la forma per ridurla o debellarla.

  • preventive

Sono tutte quelle cure al servizio della prevenzione di malattie che, senza il supporto farmacologico, potrebbero manifestarsi nella loro massima espressione.

Le terapie preventive possono quindi evitare che una patologia si presenti e possono ridurne gli effetti nel momento in cui venissero a manifestarsi.

Dopo questa rappresentazione della prevenzione e della terapia, diventa più nitida la necessità di farle convivere insieme ed è importante imparare che la paura della malattia e il non volerla affrontare, diventa una causa stessa dello sviluppo della malattia stessa.

PREVENZIONE E TERAPIALa prevenzione è assolutamente la nostra migliore alleata, non dobbiamo temerla perché se facendo prevenzione il nostro corpo risulterà sano ne saremo felici, ma se nel controllarci risulterà qualcosa di alterato, saremo stati fortunati nel diagnosticarla precocemente, avvantaggiati nella risposta delle cure e quindi nella guarigione.

La prevenzione e la terapia sono a nostra disposizione…..utilizziamole per avere una qualità della vita migliore è una longevità superiore.

Le ernie del disco rientrano?

Le ernie del disco rientrano 01Dottore mi hanno detto che le ernie del disco rientrano, ma è vero?

Questa è una domanda che spesso i miei pazienti fanno, sulla base di informazioni di dubbia provenienza da non si sa quale fonte.

Vediamo di fare chiarezza sull’argomento.

Le ernie del disco non rientrano!!! Ma sarebbe una risposta che vale la pena analizzare cercando di sviscerare l’argomento in maniera semplice ma dettagliata.

Il disco intervertebrale, posto come struttura di mezzo tra una vertebra e l’altra, è composto dal nucleo polposo e dall’anulus fibroso di contenimento.

L’anulus fibroso circonda completamente il nucleo polposo.

Le ernie del disco rientrano 02Il nucleo polposo è costituto da mucopolisaccaridi, formando una massa di tipo gelatinosa di cui l’85% della sua composizione è di acqua e per la restante parte di proteoglicani; ha la principale funzione di ammortizzatore naturale vertebrale.

L’anulus fibroso è formato da un tessuto pluristratificato, composto principalmente da collagene di tipo 1 e 2 ed ha la principale funzione di trattenere il nucleo polposo, consentendone lo spostamento controllato all’interno del disco intervertebrale, per poi imprimergli una spinta di ricentraggio nella posizione di neutralità, alla fine del movimento stesso.

Le ernie del disco rientrano 03I dischi intervertebrali hanno un’irrorazione ematica solamente nei primi anni di vita, che tende a scomparire verso i 25 anni, affidando la propria vitalità biologica al principio dell’osmosi, sfruttata per contiguità con i letti capillari vascolari dei piatti discali vertebrali, attivata tramite il movimento vertebrale stesso e i cambi di pressione.

Le ernie del disco rientrano 04I dischi intervertebrali hanno un’altezza che si differenzia a seconda del livello dove sono alloggiati.

Nel tratto cervicale l’altezza varia tra i 5 e i 6 mm, in quello dorsale tra i 3 e i 6 mm, mentre a livello lombare si aggira tra i 10 e i 15 mm.

Sia a livello cervicale che lombare, i dischi sono più alti anteriormente e meno posteriormente, mentre nel tratto dorsale tendono ad avere un’egual conformazione antero-posteriore.

Il disco intervertebrale ha una forma biconvessa e si adatta perfettamente alla superficie di alloggiamento dei corpi vertebrali.

E’ un vero e proprio ammortizzatore naturale, un antishock, che riduce le pressioni esercitate dal movimento, aumenta la capacità di mobilità vertebrale, dissipando i carichi prodotti dalla forza di gravità e dallo stesso peso corporeo.

L’ernia del disco si forma per una degenerazione del disco intervertebrale, nel momento in cui si crea una lacerazione delle fibre dell’anulus fibroso, diminuendo la capacità contenitiva del nucleo polposo, favorendone la migrazione verso la periferia.

Le ernie del disco rientrano 05Le cause più comuni della degenerazione discale sono:

  • microtraumi
  • sovraccarichi
  • alterazioni posturali
  • modificazioni biologiche.

Più fibre dell’anulus fibroso si lacerano e più il nucleo tenderà a dislocarsi verso la periferia.

Le ernie non sono tutte uguali e di distinguono tra di loro, sia per la posizione in cui si collocano e sia per le caratteristiche biologiche dell’ernia stessa.

Ma cosa sta a significare quest’ultima affermazione?

Significa che la prima valutazione che va fatta è se le ernie sono idratate o disidratate, perché in base a questo parametro, si può avere una mobilità maggiore o ridotta della porzione del nucleo polposo erniato.

Le ernie del disco rientrano 06La seconda valutazione è sulla posizione dell’ernia stessa, che si può collocare in zone diverse del canale vertebrale midollare, andando ad occupare uno spazio mediano, una porzione paramediana o affacciarsi nel frame di coniugazione.

In altre circostanze l’ernia può anche distaccarsi dalla porzione discale del nucleo polposo, abbandonando la sua collocazione intervertebrale, per migrare all’interno del canale vertebrale stesso.

Tutte queste condizioni fanno si che l’ernia, una volta decentrata dallo spazio interdiscale e collocatasi nel canale vertebrale midollare, con una migrazione generalmente progressiva, possa rimanere incarcerata nella propria posizione, perdendo di mobilità, ma ancora capace di cambiare il proprio volume.

Abbiamo capito quindi che l’ernia ha la possibilità di mobilizzarsi e la sua capacità è proporzionale rispetto a tre parametri principali:

  • il suo volume
  • la sua idratazione
  • gli effetti compressivi che subisce, ma il percorso che fa è sempre di tipo dislocativo.

Anche se volessimo, come alcuni pazienti fanno, fare un paragone con la classica ernia inguinale, dove per un indebolimento della parete addominale, il contenuto viscerale (generalmente una porzione dell’intestino) si affaccia nel canale inguinale, uscendo e rientrando a seconda degli sforzi compiuti, nel caso dell’ernia discale questo non avviene, perché la mobilità del nucleo polposo erniato è ben diversa, la consistenza del nucleo polposo erniato è ben diversa, perché i carichi e le sollecitazioni della colonna vertebrale sono ben diversi e perché lo spazio dove si colloca il nucleo polposo erniato è ben diverso.

Nel punto dove l’ernia discale trova una zona di minor resistenza, il tessuto dell’anulus fibroso si è rovinato, fino ad arrivare alla lacerazione; quella porzione di tessuto rimarrà leso per caratteristiche biologiche, per l’assenza di vascolarizzazione, per la permanenza di sollecitazioni, lasciando una strada aperta al dislocamento dell’ernia.

Concludendo……..abbiamo capito le differenze di struttura tra l’anulus fibroso e il nucleo polposo, abbiamo capito che il dislocamento dell’ernia discale è periferico, abbiamo capito che il posizionamento dell’ernia nel canale vertebrale midollare e le sue caratteristiche idratative sono importanti per definire la mobilità del nucleo erniato, abbiamo capito che le fibre dell’anulus fibroso lesionate non hanno la possibilità di rigenerarsi in maniera naturale………per tutto questo possiamo quindi dire che le ernie del disco possono stabilizzarsi o modificarsi ma non rientrano!!!

La salute passa attraverso la conoscenza e con l’articolo di oggi abbiamo la possibilità di aggiungere un tassello al nostro benessere.

Displasia congenita dell’anca

Cos’è la displasia congenita dell’anca?

Displasia congenita anca 01La displasia congenita dell’anca (DCA) conosciuta in alternativa  come “lussazione congenita dell’anca (LCA)”, è una patologia che riguarda l’articolazione coxo-femorale sia nella conformazione e sia nel posizionamento della testa del femore rispetto all’acetabolo.

Le classificazioni

La lussazione congenita dell’anca, ha diverse classificazioni a seconda di come evolve la dislocazione della testa del femore e dei rapporti anatomici che si vengono ad instaurare:

  1. displasia dove si evince un acetabolo ovalizzato
  2. sublussazione della testa del femore dove si ha una perdita parziale dei normali rapporti anatomici tra i due capi articolari
  3. lussazione dove si ha una perdita totale dei normali rapporti anatomici tra i due capi articolari
  4. lussazione e formazione di un neo-acetatolo, ovvero l’osso esterno del bacino (iliaco), al di sopra dell’articolazione, si modifica creando una nicchia che ospita la testa del femore in maniera impropria.

Displasia congenita anca 02

Quando si manifesta?

La patologia displasica si attiva già nel periodo fetale e può manifestarsi su una singola anca oppure, in percentuale ridotta mediamente al 30-35%, su entrambe le anche.

La popolazione femminile è maggiormente colpita rispetto ai maschietti e si riscontra una familiarità patologica.

Displasia congenita anca 03Nella displasia congenita dell’anca troviamo una serie di alterazione che riguardano varie strutture anatomiche:

  • cartilagini
  • osso
  • capsule articolari
  • legamenti
  • muscoli
  • tendini
  • tessuti fasciali
  • tessuto adiposo.

Le alterazioni strutturali sono sicuramente le più importanti, perché da lì avremo gli adattamenti di tutte le restanti strutture anatomiche, che compenseranno nel miglior modo possibile, senza però arrivare mai ad una stabilità ottimale dello stato di salute dell’articolazione.

Per alterazioni strutturali intendo:

  • ipoplasia dell’acetabolo
  • un solco migratorio della testa del femore sull’ala iliaca esterna del bacino
  • la formazione atipica di un neo-acetabolo alla fine del solco migratorio iliaco, dove si stabilizzerà la testa del femore, creando una falsa articolazione adattativa
  • alterazione della testa, del collo e dell’angolo femorale.

Cause e sintomi della displasia congenita dell’anca

Cause

Displasia congenita anca 04Le cause che possono innescare la displasia congenita dell’anca sono diverse:

  • ereditarietà che si manifesta con percentuali diverse a seconda del diretto corrispettivo con genitori o fratelli
  • riduzione della resistenza della cavità acetabolare, ovviamente a maggior impronta cartilaginea nei primissimi periodi di vita e sviluppo
  • lassità capsulo-legamentosa, che permette il dislocamento della testa del femore fuori dall’asse articolare
  • la posizione del feto nel periodo di sviluppo e il rapporto di volume-spazio occupato soprattutto negli ultimissimi mesi, che potrebbe portare il nascituro ad assumere degli atteggiamenti sbagliati e innaturali con l’anca.

Sintomi

I sintomi che si manifestano nella lussazione congenita dell’anca sono diversi a seconda del grado di displasia e in relazione all’età della comparsa manifesta nel soggetto affetto.

Nella fase neonatale si individua uno scatto ed un’anomalo movimento, che viene riscontrato e riprodotto tramite due test specifici:

  • manovra di Ortolani
  • manovra di Barlow.

La coscia tende ad essere maggiormente in extrarotazione nella posizione di riposo e l’arto displasico è risalito, risultando erroneamente più corto.

I movimenti di apertura della coscia possono risultare ridotti.

Displasia congenita anca bambiniNello sviluppo dei bambini, in particolare modo nella conquista della posizione bipodalica e nello sviluppo della deambulazione, si può manifestare un ritardo di entrambe le fasi.

Non è raro notare uno stato anomalo di tensione muscolare, se non addirittura di contrattura di alcuni e uno stato di ipotonicità di altri.

Nel corso degli anni si instaureranno compensi di postura sia a livello della colonna vertebrale, sia nel ginocchio, com’anche nell’appoggio del piede a terra in fase statica e dinamica.

Sarà inevitabile veder sviluppare un’artrosi precoce della testa del femore e della zona articolare che la contiene.

Come si diagnostica una displasia congenita dell’anca?

Manovre Ortolani BarlowCome prima frase, nei giorni di degenza ospedaliera del bambino dopo il parto, durante i controlli pediatrici, vengono eseguite le manovre di Ortolani e/o di Barlow, che metteranno in allerta i sanitari, nel qual caso risultino positive.

Gli esami ecografici sono fondamentali e vanno effettuati tra la 6° e la 12° settimana di vita del bambino.

L’ecografia permetterà di vedere lo stato di salute della zona articolare, le strutture cartilaginee pre-sviluppo osseo, lo stato in essere dei legamenti e delle capsule articolari.

Displasia congenita anca RXLe indagini radiografiche permettono di capire l’anatomia delle articolazioni coxo-femorali displasiche, non nel periodo post nascita e ne prima dello stadio di inizio deambulazione, perché la formazione ossea sarebbe minima e quindi troppo poco valutabile.

L’RX diventa un ottimo esame diagnostico nel momento in cui l’osso è sufficientemente o totalmente formato, permettendo di valutare sia la posizione dei capi articolari, sia la deformazione articolare, sia la presenza della neo-articolazione.

La terapia della displasia congenita dell’anca

La terapia varia in maniera significativa a seconda di quanto si sia stati tempestivi nel diagnosticare e nell’affrontare la patologia displasica.

La fase neonatale

Displasia congenita anca tutore

Displasia congenita anca tutore

Nella fase neonatale si utilizza un tutore per centrare e mantenere nella posizione ottimale la testa del femore nell’acetabolo.

Fintanto che le strutture anatomiche, scaricate dalle trazioni muscolari e dalle forze di compressione, si sviluppino maggiormente e siano tra loro meglio contenenti.

Nel caso la terapia inizi in una fase di lussazione dell’anca, sarà necessario applicare una trazione prolungata in scarico che riporti la testa del femore in allineamento con l’acetabolo articolare.

Si andrà, poi, fare una manovra di riposizionamento e fissarla in correzione con apparecchio gessato o tutore.

I tempi saranno variabili in ogni sua fase a seconda della gravità della lussazione e in relazione allo stato di tensione e fibrosità dei tessuti molli.

Accrescimento e età adulta

Nel caso la patologia sia ormai conclamata e stabilizzata in un’età di accrescimento e sviluppo importante, non abbiamo modi efficaci per ristabilire la congruità dei capi articolari, se non sostituire l’articolazione con un’artroprotesi, impiantando quindi una nuova testa del femore e un nuovo acetabolo.

Visto che le protesi articolari hanno un tempo di durata abbastanza predefinito, generalmente si aspetta un’età adulta per impiantare la neo-articolazione.

Nel frattempo si utilizza la fisioterapia per diminuire al massimo i compensi articolari vertebrali e di carico degli arti inferiori, ristabilendo la miglior capacità funzionale delle catene muscolari, evitando contratture oppure ipotonicità.

Sarà necessario mantenere la miglior articolarità possibile concessa, per lasciare attivi i movimenti nei piani congrui biomeccanici.

artroprotesi ancaSpesso ci troveremo costretti a recuperare la dismetria tra i due arti, causata dalla dislocazione articolare, per mezzo di un rialzo, permettendo di mantenere almeno il miglior assetto vertebrale posturale possibile.

L’artroprotesi

Quando il paziente arriverà ad un’eta congrua per affrontare l’intervento di sostituzione articolare, una volta impiantata l’artroprotesi, si procederà ad un periodo di recupero riabilitativo.

In questa fase, sarà compito del fisioterapista andare a ristabilire l’articolarità della protesi, eliminare gli esiti chirurgici, quali edemi, cicatrici, ipotonie muscolari, scompensi posturali e biomeccanici.

A questo punto il paziente comincerà a vivere un nuovo periodo, libero dalle difficoltà articolari e dai dolori muscolari.

Deve tener presente che generalmente il complesso protesico messo prematuramente, deve portarlo a prestare attenzione per evitare un’usura precoce della neo-articolazione.

E’ indispensabile evitare di sottoporla a gesti che ne possano aumentare il carico oltremodo ed il rischio di lussazione.

La displasia congenita dell’anca non ci deve preoccupare soprattutto se presa nelle primissime fasi neonatali.

La diagnosi precoce diventa la miglior alleata a nostra disposizione, in caso contrario il percorso di cura sarà più lungo e tortuoso ma comunque possibile.

La salute passa attraverso la conoscenza e con l’articolo di oggi, abbiamo la possibilità di aggiungere un tassello al nostro benessere.

 

Articolo presente anche su APA Institute

Spondilodiscite

Con il termine di spondilodiscite si definisce una patologia a carico vertebrale (spondilite) e discale (discite), inerente alla degenerazione patologica dei loro tessuti biologici, causata da un’ infezione da agente esterno.

Il paziente vede un coinvolgimento diverso se è nella giovane età compresa tra i 10 e i 20 anni rispetto ad un adulto oltre i 50 anni.

La differenza sostanziale sta che mentre nella fascia di età più giovane, i dischi intervertebrali sono ancora vascolarizzati, caratteristica che viene definitivamente a mancare attorno ai 20 anni.

Le infezioni di tipo discale e quindi le disciti, sono superiori alle spondiliti, proprio perché la vascolarizzazione del disco intervertebrale può veicolare l’agente patogeno, mentre nell’età adulta l’infezione avviene soprattutto per via ossea, dove invece la vascolarizzazione è permanente e per tanto le spondiliti saranno nettamente superiori alle disciti.

Spondilodiscite_02Il risultato è spesso similare perché il danno si estenderà per contiguità a entrambe le strutture, ma viene spontaneo capire che se si è bravi a fare una diagnosi precoce, la mirabilità della cura e la prognosi possono prendere strade ed aspetti diversi.

In entrambi i casi l’infezione porta ad un danno del tessuto biologico che subirà un erosione da agente patogeno, tale da distruggerne la struttura e a seconda di quanto il processo lesivo sia andato avanti e con quale grado di aggressività, si potrà riscontrare un cedimento anatomico che coinvolgerà anche le zone attigue.

Ci sono dei fattori di predisposizione alla patologia che possono essere indicati su un’ampia scala:

  • abuso di cortisone
  • insufficienza renale
  • insufficienza epatica
  • infezioni delle vie urinarie
  • infezioni cardiache
  • ipertensione arteriosa
  • diabete
  • interventi chirurgici vertebrali
  • malattie reumatiche
  • uso di sostanze stupefacenti che causino immunodeficienza.

La spondilodiscite può colpire qualunque porzione vertebrale, dalla zona cervicale a quella lombosacrale, ma statisticamente, circa il 65%, la zona maggiormente interessata è a carico del segmento lombare.

Spondilodiscite_03

Ma quale parte della zona vertebrale può essere colpita?

Come prima accennato, generalmente le strutture che vengono attaccate sono il disco intervertebrale (discite) e la parte ossea della vertebra (spondilite), ma essendo un processo infettivo può succedere che l’attacco venga esteso anche alle strutture contigue quali: il midollo spinale, le radici nervose, le meningi, le capsule articolari, la muscolatura di stretto rapporto.

I sintomi legati alla spondilodiscite sono molti, si presentano in base al tipo di agente patogeno che ha innescato la patologia e alle strutture danneggiate nell’attacco.

Il tutto si manifesterà con un’ intensità  sintomatologica che varia da soggetto a soggetto.

I segni e i sintomi più diffusa sono:

  • dolore
  • febbre
  • stanchezza
  • perdita di peso
  • contratture muscolari di tipo antalgiche
  • rigidità nei movimenti
  • riduzione della forza muscolare
  • riduzione della sensibilità
  • disfunzioni della mobilità viscerale e della continenza degli sfinteri (urina e feci).

Spondilodiscite 05Mentre i disturbi legati alla muscolatura e alla dolorabilità sono di facile comprensione, il resto dei sintomi elencati sono dati dal danno batterico, anatomico o compressivo per cedimento strutturale, che il segmento vertebrale può relazionare alle strutture nobili neurologiche contigue.

Gli agenti patogeni che possono generare una spondilodiscite sono molti e variano in percentuale di incidenza e possibilità di danno.

I tessuti vertebrali possono essere infettati per via ematica come già accennato precedentemente (70% dei casi circa), ma anche per inoculazione diretta, per contiguità, per situazioni di immunodepressione, come conseguenze di interventi chirurgici vertebrali.

Spondilodiscite_04I batteri che possono innescare la spondilodiscite e che hanno un’ incidenza maggiore nel nostro territorio, appartengono al complesso dei batteri piogeni, ovvero in grado di generare infezioni purulente e appartengono alla famiglia sia dei gram-positivi quanto dei gram-negativi:

  • streptococco aureus
  • streptococco
  • stafilococco coagulasi-negativo
  • escherichia coli
  • pseudomonas
  • enterococco
  • mycobacterium tuberculosis (responsabile della tubercolosi)
  • brucella (responsabile della brucellosi)

La spondilodiscite può essere provocata anche dai funghi quali:

  • candida
  • aspergillus

Solamente per nominarli, ma di incidenza rara, sono i parassiti:

  • echinococco granulosos
  • toxoplasma gondii.

La diagnosi

Spondilodiscite 06Nella diagnosi diventa fondamentale fare una buona anamnesi, raccogliere tutti i dati che il paziente possa fornire per capire se ci siano state infezioni, se ci siano stati dei fattori predisponenti, che sintomi si manifestano e in che modalità.

E’ importante lo studio delle analisi del sangue per individuare la presenza di una possibile infezione.

Fondamentale è la diagnostica per immagini che si avvarrà della RM, spesso associata a mezzo di contrasto.

Spondilodiscite 07La scintigrafia ossea con tecnesio 99 è molto utile, soprattutto se il paziente è impossibilitato ad effettuare una RM.

La TC si utilizzerà nel caso si voglia studiare bene i danni che la spondilodiscite abbia causato sulla struttura vertebrale.

La biopsia del tessuto infetto permetterà di individuare in maniera specifica, il tipo di agente patogeno che ha innescato la patologia, per poi mettere a disposizione del paziente una cura mirata.

La terapia

Spondilodiscite 08La terapia ha i suoi maggiori risultati in base alla tempestività della diagnosi e allo studio del fattore patogeno che l’ha generata.

Si parte con un approccio farmacologico mirato alla causa primaria dell’infezione, a questa si associa una terapia di immobilità, di scarico delle forze e del peso corporeo, utilizzando un busto decompressivo.

La fisioterapia e l’osteopatia sono importanti per gestire lo stato di salute fisico sia nella dolorabilità, sia nella perdita del movimento che del tono muscolare.

Nel caso in cui il danno della spondilodiscite sia eccessivamente grave, come un crollo vertebrale, come una suppurazione contigua alla radice nervosa o nel cono midollare, sarà necessario intervenire per mezzo della chirurgia, che sceglierà la tecnica più adeguata in base alla condizione e al disagio anatomo-funzionale a cui dovrà far fronte.

Anche in questo caso sarà necessario un periodo di riabilitazione, mirato al recupero del deficit patologico e delle conseguenze del post operatorio.

La spondilodiscite non va assolutamente sottovalutata, perché i danni che può lasciare sono potenzialmente gravi, però se presa tempestivamente, se curata con pazienza e costanza, si può tornare a fare una vita normale e piena di soddisfazioni.

Impingement della spalla subacromiale

Cos’è la sindrome da impingement subacromiale?

Impingement_spalla_01E’ un’affezione dolorosa della spalla molto comune, che si manifesta per una riduzione dello spazio tra due capi articolari, la testa dell’omero e l’acromion.

Questo spazio è fondamentale per il passaggio del muscolo sovraspinoso, nella porzione di giunzione miotendinea e per la presenza della borsa sottodeltoidea.

Entrambe le strutture sono molto ben innervate dalle fibre nocicettive e possono subire compressione e irritazione nel caso lo spazio di scorrimento diminuisca come vedremo più avanti.

Come è composta l’articolazione della spalla?

La spalla è composta da 5 articolazioni, 3 propriamente dette e 2 fisiologiche (o di scorrimento).

Nel campo delle professioni sanitarie vengono in gergo rinominate come 3 articolazioni vere e 2 articolazioni false.

Impingement_spalla_02Le 3 articolazioni propriamente dette sono:

  • l’articolazione gleno omerale (tra la testa dell’omero e la scapola – porzione della glena)
  • l’articolazione acromion clavicolare (tra la clavicola e la scapola – porzione dell’acromion)
  • l’articolazione sterno clavicolare (tra lo sterno e la clavicola)

Le 2 articolazioni fisiologiche sono:

  • l’articolazione sottodeltoidea
  • l’articolazione scapolo toracica.

L’insieme delle 5 articolazioni che compongono la spalla, permettono di relazionare il braccio rispetto al torace, di compiere i movimenti in ogni piano dello spazio e di sommare gli stessi movimenti tra di loro.

Le 3 articolazioni vere sono la congiunzione fra 2 porzioni ossee diverse tra di loro, con lo scopo di creare un movimento specifico a seconda delle diverse conformazioni articolari.

Le 2 articolazioni false servono a creare una superficie di scorrimento tra tessuti molli, per migliorare l’efficacia del movimento stesso, diminuendone gli attriti.

Quali movimenti può fare la spalla?

Impingement_spalla_03Nello specifico, i movimenti che la spalla può compiere sono:

  • elevazione anteriore (flessione)
  • elevazione posteriore (estensione)
  • abduzione (elevazione laterale)
  • adduzione (depressione mediale)
  • rotazione esterna
  • rotazione interna
  • circonduzione

La scala dei movimenti elencati è complessa, soprattutto perché vede la necessità di armonizzare e rendere corale la sincronizzazione delle 5 articolazioni che entrano in gioco e della colonna vertebrale, la quale deve coadiuvare i movimenti nei sui valori più elevati.

La complessità biomeccanica della spalla, risiede negli accomodamenti e nel gioco muscolare che deve fare, in modo che l’ articolazione venga comunque sostenuta e ancorata, associandone la mobilità legamentosa e capsulare.

Chi ne guida i movimenti?

Impingement_spalla_04I movimenti sono guidati da serie muscolari che agiscono quasi mai in maniera isolata, ma sempre in modo corale per creare nel movimento maggiore, una serie di accomodamenti minori capaci di stabilizzare la spalla e di adattarla sia ai gradi di movimento, che ai piani di sviluppo articolare interagenti.

La testa dell’omero deve essere richiamata ad una coaptazione rispetto alla glena della scapola, ma sufficientemente distanziata nei rapporti con il tetto acromiale, sotto il quale ci passa la porzione miotendinea e il tendine stesso del m.sovraspinso.

La cuffia dei rotatori, formata dall’unione di relazione rotatoria minore ma equilibratrice della testa dell’omero, è di ben 4 muscoli:

  • m.sovraspinoso
  • m.sottospinoso (m.infraspinato)
  • m.picco rotondo
  • m.sottoscapolare

Questi 4 muscoli adattano le rotazioni e la coaptazione della testa dell’omero nei confronti della glena, mantenendola sufficientemente distante dall’acromion e permettendo l’adattamento dell’articolazione gleno omerale per proseguire nell’aumento dei gradi articolari, soprattutto in abduzione e in elevazione anteriore.

Da non dimenticare che fondamentali sono le articolazioni di scorrimento, sottodeltoidea e scapolo-toracica, per far si che il movimento subisca meno attriti possibili.

Quali sono i sintomi di una sindrome da impingment della spalla?

I sintomi si manifestano con un dolore alla spalla che può variare di posizione, manifestandosi sulla zona sopra acromiale, nella zona deltoidea, anteriormente al capo lungo del bicipite.

Queste zone di dolore non devono per forza essere isolate, ma possono anche sommarsi tra di loro.

Impingement_spalla_05Il dolore si associa frequentemente ad una riduzione di mobilità articolare, ad una diminuzione della forza e della resistenza, dando un senso di astenia al braccio.

Il riposo non sempre porta un giovamento, anzi il dormire sulla spalla, o il poggiarcisi su di una poltrona o sul divano, possono notevolmente peggiorare la sintomatologia in maniera repentina.

La necessità di scaricare il peso del braccio e quindi di dargli sostegno, diventa quasi un automatismo nelle attività di vita quotidiane.

I movimenti articolari maggiormente limitati sono la flessione e quindi l’incapacità o lo sforzo eccessivo per alzare il braccio sopra la testa su di un piano sagittale; l’abduzione e quindi la resistenza ad alzare il braccio sopra la testa su di un piano frontale; i movimenti di rotazione esterna ed interna, tanto ti tipo grossolano, quanto nei movimenti fini, quindi la difficoltà nel pettinarsi (movimento mano testa) o nell’allacciarsi il reggiseno (movimento mano schiena).

Il dolore di spalla porta spesso anche un compenso della zona cervicale e dorsale, instaurando dolori spesso di origine muscolare per contrattura, nell’area del trapezio e della parte interna della scapola.

Non è raro ritrovare una zona di dolenzia sul gomito, qualora la problematica della spalla dovesse perdurare nel tempo.

Quali sono i fattori scatenanti?

Impingement_spalla_06La sindrome da impingement viene attivata dalla risalita della testa dell’omero che si avvicina alla parte inferiore dell’acromion, creando un problema sia per quanto riguarda il movimento filologico articolare, sia per lo schiacciamento e l’irritazione della borsa sottodeltoidea nella sua porzione acromiale, sia per la compressione del tendine del m.sovraspinoso.

La condizione di riduzione dello spazio periarticolare e quella della compressione dei tessuti molli, portano a sfuggire dal movimento fisiologico perché risulterebbe dolente all’esecuzione, causando l’instaurarsi di attività compensatorie, come ad esempio l’ abduzione della spalla con il braccio in atteggiamento di intrarotazione, attivando dei muscoli non predisposti a compiere quel tipo di gesto, causandone uno stato di tensione spesso dolente.

Impingement_spalla_07 Impingement_spalla_08La causa si può ritrovare anche in una perdita di idratazione della borsa deltoidea, che perde il suo trofismo e volume, diminuendo nettamente la capacità si attutire le compressioni del movimento articolare.

Le posture in cifosi con una chiusura delle spalle in avanti, possono dare la predisposizione ad una sindrome da impingement per il cambiamento di angolazione tra la clavicola e la scapola, cosi come il basculamento anomalo della scapola sul torace stesso.

 

Quest’anomalia posturale porterà a far attivare maggiormente la catena muscolare intrarotatoria della spalla, diminuendo l’efficacia delle componenti extrarotatorie, costrette a lavorare in maniera eccentrica.

Il tutto si tradurrà in una perdita di efficacia nella sinergia della cuffia dei rotatori, che lascerà spazio al muscolo deltoide e al capo lungo del bicipite di lavorare con maggior vigore, traslando la testa dell’omero verso l’alto.

Impingement_spalla_09La lesione parziale, o molto peggio totale, di una o più porzioni dei tendini della cuffia dei rotatori, causerà una perdita di funzione, creando uno squilibrio a favore del deltoide e del capo lungo del bicipite, che favoriranno la risalita della testa dell’omero verso l’alto.

Ovviamente non mancano le nozioni di trauma che possono danneggiare l’anatomia di una delle strutture fino ad esso discusse, o limitarne il funzionamento, per creare l’instaurarsi della sindrome da impingement subacromiale.

Come si fa diagnosi?

La diagnosi si basa su un’anamnesi accurata raccogliendo informazioni tali per capire quando il problema si sia manifestato, come abbia avuto inizio e quali possano essere state le cause esterne valutabili (lavori fisici, attività sportiva, traumi, posture alterate e prolungate nel tempo).

Seguirà un’esame valutativo clinico che si farà forte di una serie di test, in grado di studiare:

  • le escursioni articolari nella loro completezza o nella loro limitazione
  • le capacità di attivazione muscolare, valutabili nella forza e nella resistenza
  • l’individuazione dello stato di salute di legamenti e capsule articolari
  • il dolore evocato valutandolo in riferimento ai punti critici della patologia.

Impingement_spalla_10Diventa fondamentale l’aiuto della RM di spalla per poter studiare lo stato anatomico dei tessuti muscolo tendinei, capsulo legamentosi e sierosi.

Può risultare utile lo studio radiografico della spalla per individuare la posizione della testa dell’omero rispetto al tetto acetabolare e l’eventuale presenza di segni artrosici articolari; sarebbe ancora più utile se la radiografa fosse accompagnata da una ecografia dei tessuti molli, in maniera da avere un quadro esaustivo, anche se non preciso nella sua espressione massima.

Gli esami clinici e quelli diagnostici per immagini, ci rendono certi della presenza della patologia e capaci a questo punto di indirizzare il paziente verso la cura appropriata, dando una prognosi coerente con lo stato di salute.

Quali sono le cure?

La cura per la sindrome da impingement subacromiale, vede varie strade percorribili, concepite a seconda dell’integrità anatomica in cui si presenta la spalla.

Possono essere usati antinfiammatori non steroidei, spesso associati a miorilassanti e in alcune occasioni, si può fare ricorso ai cortisonici e agli antidolorifici.

Non sono pochi i casi in cui vengano utilizzate terapie farmacologiche infiltrative con un mix di farmaci ai quali non di rado viene aggiunto anche un anestetico locale.

Impingement_spalla_11La fisioterapia e l’osteopatia sono fondamentali per recuperare la funzione persa della spalla, migliorandone il posizionamento anatomico dei capi articolari, riequilibrando le catene muscolari per forza e capacità di attivazione.

Sono entrambe molto utili per abbassare la soglia del dolore, mitigandone gli effetti a cascata su tutte le strutture di relazione.

La chirurgia è la soluzione ultima a cui si arriva nel caso di un danno anatomico importante e non compensabile dal resto delle terapie sopracitate.

Impingement_spalla_12I tipi di intervento sono molti e saranno scelti in base al quadro di danno anatomico presente e in base alle abitudini di preferenza del chirurgo.

La maggior parte degli interventi vengono fatti in artroscopia e sono di tipo ricostruttivo-riparativo.

Certo è che dopo un intervento chirurgico ci sia bisogno di un periodo di riposo e di recupero riabilitativo, per poter ritrovare la miglior condizione fisica possibile.

 

Abbiamo esaminato a fondo la sindrome da impingement subacromiale, ci è ormai chiaro quali sono le problematiche che manifestano e il tipo di inabilità riscontrata nella quotidianità, non facciamoci sorprendere, abbiamo tutte le possibilità per affrontarla nel migliore dei modi, salvaguardando la qualità della nostra vita quotidiana.

Stenosi cervicale

La stenosi cervicale è una riduzione del volume del canale midollare, zona intima della colonna vertebrale che ospita l’alloggiamento del midollo spinale, la porzione di emergenza delle radici nervose anteriori e posteriori (per il trasporto delle informazioni motorie e sensitive), il pacchetto vascolare arterioso e venoso di relazione.

Stenosi_cervicale_01La stenosi cervicale si può manifestare in un segmento specifico della cervicale o su più segmenti vertebrali.

Può presentarsi per una modificazione congenita, per un trauma importante, per forme benigne o meno di neoformazioni, per patologie artritiche, per una degenerazione della porzione ossea, per discopatie, per alterazioni legamentose, per cambiamenti posturali.

Tralasciando la parte di malformazione congenita, traumatica, tumorale, le quali meritano un articolo a se, parliamo adesso dell’eziopatogenesi degenerativa.

Stenosi_cervicale_02Il canale midollare ha una sua ampiezza predefinita che deve mantenere il suo volume interno al variare della posizione e del movimento del segmento vertebrale.

Il canale vertebrale viene circoscritto dalle lamine vertebrali, dalle porzioni interne articolari, dai peduncoli, dalla porzione posteriore del corpo vertebrale, dal legamento longitudinale posteriore, dai legamenti gialli e dalla porzione posteriore del disco intervertebrale.

Quali sono le cause del restringimento?

  • Artrosi cervicale
  • Ernia cervicale
  • Fibrosi dei legamenti gialli
  • Osteofitosi interna
  • Verticalizzazione del segmento cervicale

Molte di queste eziopatogenesi sono la naturale conseguenza dell’usura che il tempo ci riserva con l’andare avanti dell’età, va però specificato che possono essere più importanti e rischiose se l’evoluzione è aumentata da fattori predisponenti di vita quotidiana e di attività lavorative.

Una nota di interesse è rispetto all’ernia discale.

Il danno del disco ha molteplici variabili e il suo affacciarsi nel canale midollare sarà più o meno grave a seconda del volume dell’ernia, alla sua posizione e se sia un’ernia molle perché ancora idratata o un ernia dura perché disidratata e fibrotizzata.

Che sintomi si possono manifestare?

Stenosi_cervicale_03La sintomatologia varia per tipo di dolore e per zona di manifestazione:

  • Dolori neurologici periferici che possano associarsi ad alterazione della sensibilità, della forza e del trofismo muscolare stesso, con distretti di manifestazione che variano a seconda del metamero coinvolto, andando dalla zona nucale alle braccia, alle scapole
  • Alterazione della vitalità neurologica per compressione diretta del midollo con estensione della manifestazione mielopatica dalla porzione cervicale a scendere verso i tratti della colonna più bassi all’aumentare della gravità della pressione, causando riduzione della forza e diminuzione della massa muscolare, alterazione della sensibilità, bruciore, intorpidimento, difficoltà nella coordinazione del movimento
  • Dolore cervicale locale e irradiato a seconda dello stato di tensione e contrattura antalgica muscolare. Il dolore aumenterà al movimento e diminuirà velocemente a riposo
  • Rigidità al movimento, non di rado si può associare una tensione sottonucale, giramenti di testa e nausee
  • Si può riscontrare il segno di Lhermitte, ovvero una sensazione di scarica elettrica che si irradia dal collo lungo la colonna vertebrale durante la flessione in avanti del capo e della cervicale. Questo segno indica la presenza di una sofferenza midollare dove vengono coinvolte le radici posteriori dei nervi spinali.

Stenosi_cervicale_04Come si definisce la gravità di questa patologia?

La gravità si stabilisce rispetto ai tipi di sintomi manifesti, più la patologia coinvolgerà la porzione neurologica, più sarà importante lo stato di avanzamento della stenosi cervicale.

Anche qui va sottolineato che i sintomi neurologici periferici a carico delle radici nervose locali, sono ad uno step di tolleranza, rispetto ai sintomi midollari ben più gravi, che possono coinvolgere anche il tronco e gli arti inferiori.

Quali sono gli esami diagnostici utilizzati?

La diagnosi della stenosi del canale midollare vede come esame principe la RM del segmento cervicale, capace di analizzare i tessuti molli discali, legamentosi, midollari e radicolari nel loro stato di salute anatomico rispetto alla dimensione del canale midollare nelle sue varie porzioni descritte all’inizio dell’articolo.

Stenosi_cervicale_05Anche l’esame TC ha un’ottima valenza per studiare lo stato in essere soprattutto della struttura ossea che compone il canale midollare e lo stato di sviluppo di osteofiti articolari.

Può risultare utile anche un esame elettromiografico per vedere la capacità di attivazione e di risposta delle placche motrici periferiche.

Sarà necessario fare un’attenta analisi dei riflessi osteotendinei e della loro risposta, sia se inibiti tanto se iperattivati.

Quale tipo di terapia può essere applicata?

La stenosi del canale cervicale può essere approcciata in molti modi e può combinare contemporaneamente una o più terapie tra di loro. A livello farmacologico vengono spesso utilizzati antinfiammatori, preferibilmente fans, quando si ha la necessità di combattere l’infiammazione locale sviluppatasi, ma in alcune situazioni non è da escludere l’utilizzo di cortisonici quando sia utile ridurre la componente edematosa che l’infiammazione stessa può esacerbare.

Possono essere usati i miorilassanti quando si sviluppano contratture e tensioni muscolari, per via del dolore e del cattivo compenso muscolare.

Non sono pochi i casi dove si ricorre agli antidolorifici per ridurre la soglia percepita e la soglia di attivazione del dolore.

La fisioterapia e l’osteopatia sono molto utili quando la stenosi è causata dalla presenza compressiva di tessuti molli, discopatie o artrosi delle faccette articolari.

Riescono ad applicare terapie manuali capaci di mantenere attivo il trofismo biologico dei nervi periferici interessati e mantenere uno stato di efficienza della muscolatura, la quale andrebbe incontro a ipotrofia da riduzione dell’attività fisica e dalla deficitaria innervazione motoria.

La fisioterapia così come l’osteopatia sono necessarie per mantenere efficienti le funzioni vertebrali e creare i giusti compensi necessari per deviare le linee dinamiche e di carico della zona stenotica.

Nei casi più gravi non è da escludere l’intervento chirurgico per decomprimere la zona midollare, in tutte quelle situazioni dove la stenosi sia di tipo duro e quindi irriducibile, con manifestazioni cliniche importanti e rischi di denervazione o di mielopatie.

La stenosi del canale cervicale è una patologia molto seria ma può essere diagnosticata in tempo, tanto da gestirla nel migliore dei modi e rallentare o bloccare il suo percorso patologico. Il nostro corpo ci invia messaggi di disagio cercando di comunicarci qualcosa, diamo ascolto ai nostri sintomi e non trascuriamoli, è il modo più efficace per prevenire e curare le affezioni che nel corso della vita si affacciano.

Ginocchio valgo, ginocchio varo

Ginocchio_valgo_varo_01Il valgismo ed il verismo del ginocchio sono due alterazioni di posizione dei capi di giunzione articolare, ovvero femore e tibia, che perdono la loro ottimale angolazione di incontro, andando a portare il ginocchio più vicino alla linea centrale del corpo nel caso del valgismo, oppure più lontano alla linea centrale del corpo nel caso del varismo.

Il ginocchio é un’articolazione dove i capi articolari sono appoggiati tra di loro, contenuti da capsule e legamenti, pertanto godono di un equilibrio sempre condizionato da fattori contigui, diverso invece sarebbe se fosse stata un’articolazione ad incastro come ad esempio quella dell’articolazione dell’anca dove la stabilità è molto maggiore.

Ginocchio_valgo_varo_02Il valgismo e il varismo possono essere anche notati per l’allontanamento delle caviglie tra di loro nel valgismo, mentre nel varismo avremo l’ allontanamento delle ginocchia tra di loro.

Il valgismo e il varismo generalmente si manifestano bilateralmente, ma non sono pochi i casi dove la deformazione sia a carico di un solo emilato.

Il ginocchio ha un asse leggermente diverso tra il maschio e la femmina e ciò è la risultante della diversa conformazione del bacino, più stretto nell’uomo e più largo nella donna.

La forma del ginocchio stesso é data dalla dalla risultante delle conformazioni del bacino, della testa del femore, della dialisi femorale, della tibia, della pinza malleolare rispetto all’astragalo e del calcagno.

Ginocchio_valgo_varo_03Adesso diventa chiaro quanto sia delicato l’equilibrio tra le strutture anatomiche della persona e le linee di gravità che comandano la nostra quotidianità biomeccanica statica e dinamica.

Insieme al valgismo e al varismo va considerato che ci sono modificazioni di accomodamento dell’articolazione nei 3 piani delle spazio, quindi insieme alla deviazione sul piano frontale, avremmo degli accomodamenti anche in rotazione (piano orizzontale) e in flesso-estensione (piano sagittale).

Questi compensi verranno mediati in primo luogo dalle strutture articolari mobili quali il perone, la pinza malleolare e la sottoastagalica, il calcagno, ovvero quelle strutture osteo-articolari che hanno una grossa capacità di accomodamento nella distribuzione dei carichi per favorire la mobilità e l’appoggio.

Fatto un quadro generale sul valgismo e sul varismo cerchiamo di capire quali possono essere le cause di queste alterazioni articolari.

Le cause

Le cause sono molte e di natura diversa, legate all’età in cui si manifestano ed evolvono.

  • Ginocchio_valgo_varo_04L’allineamento della testa del femore, della dialisi femorale e della tibia, crea il passaggio dei carichi delle linee di forza fino allo scarico a terra. Un alterazione di questi allineamenti creerà la predisposizione allo sviluppo e al consolidamento del ginocchio in valgismo o in varismo, a seconda se le deviazioni siano spostate verso l’interno o verso l’esterno della linea mediana.
  • Infezioni o traumi che possano aver pregiudicato la normale biologia delle cartilagini di accrescimento (zone ossee predisposte a dare lo starter di crescita all’osso in tutto l’arco di sviluppo), arrecandone un danno che porti ad una calcificazione o ad un’ossificazione prematura sconvolgendone l’equilibrio di sviluppo locale osseo.
  • Debolezza muscolare di una o più muscoli che portino a favorire la deviazione per trazione dei capi articolari rispetto ad un asse di equilibrio naturale. Può essere causato non solo dai gruppi muscolari mediali o laterali, tipici del valgismo o del varismo, ma anche di quei gruppi che, come avevo accennato precedentemente, portano a dei compensi in uno dei tre piani dello spazio e che contribuiscono a favorire il valgismo o il varismo stesso.
  • Traumi fratturativi che si risolvano con un cattivo allineamento dei monconi ossei, tanto da creare una deviazione e un cambiamento di asse permanente con ripercussioni inevitabili sulla normale posizione del ginocchio
  • Traumi distorsivi del ginocchio che comportino un danno parziale o totale delle strutture capsulolegamentose, tanto da non riuscire più a Ginocchio_valgo_varo_05contenere in maniera congrua l’articolazione e da sostenerla e guidarla negli appoggi e/o nella dinamica del movimento, con la conseguenza di una deviazione assiale del ginocchio.
  • Artrosi del ginocchio che porti ad una riduzione delle cartilagini articolari, un assottigliamento dei menischi per meniscosi, con una conseguente riduzione degli spazi articolari che raramente si manifestano in maniera uguale ed equilibrata tra il compartimento articolare esterno ed interno, creando così una deviazione del ginocchio, in diretta relazioni rispetto al compartimento del ginocchio che abbia perso altezza.
  • Non sono da sottovalutare le disfunzioni metaboliche che possano portare a rachitismo o comunque ad un cambiamento, per insufficiente nutrizione delle cellule predisposte all’accrescimento e al mantenimento della salute delle strutture ossee, cartilaginee, muscolari, connettivali.
  • L’ obesità è una delle cause che portano con facilità ad una deviazione del ginocchio, che costretto a sopportare un aumento di peso eccessivo, non oppone sufficiente resistenza alle forze che si concentrano sull’articolazione.

Ma cosa comporta aver un ginocchio valgo o un ginocchio varo?

I problemi si posizionano su livelli posturali, biomeccanici, sintomatologici e patologici.

La postura si altera cercando un adattamento sia sullo scarico a terra e quindi tramite il piede, modificando l’adattamento degli archi plantari e delle testa metatarsali, portando ad alterazioni sulla spinta durante il passo e al trasferimento del movimento dalla zona del retropiede alla zona dell’avampiede.

Il calcagno soffrirà nel cercare un equilibrio posticcio per scaricare il peso del corpo a terra (ricordo che il calcagno scarica da solo l’ 80% del peso corporeo che si presenta al piede).

Ginocchio_valgo_varo_06Le ginocchia stesse e le anche troveranno un adattamento in flesso estensione e in rotazione, tanto da ricreare una sinergia compensatoria tra le catene muscolari.

La postura dell’arto inferiore cercherà di scaricare il più possibile il ruolo adattativo anche sulla cerniera lombo sacrale e sul bacino.

Il movimento che si creerà sarà quindi funzionale ma non armonico portando in stress sia la muscolatura, che andrà incontro a contratture o a predisposizioni allo stiramento e agli strappi, sia le porzioni legamentose contenitive, che saranno soggette a tensione aumentata e quindi predisposte ad eventi distorsivi e ad elongazioni con perdita di stabilità della struttura.

I menischi del ginocchio subiranno un cambiamento di appoggio, di sostegno e di movimento che li porterà a subire una degenerazione precoce, fino alla rottura parziale o totale della zona meniscale che risentirà maggiormente dei cambiamenti descritti fin qui.

Ginocchio_valgo_varo_07Si potrà sviluppare con maggior precocità un’artrosi femoro tibiale e femoro rotulea con un consumo cartilagineo che minerà lo stato di salute articolare e la sua funzione, con un’ instaurarsi di dolori e impotenza muscolare.

La diagnosi

La diagnosi sarà basta su un esame clinico visivo in posizione eretta o supina, dove si valuterà la posizione delle ginocchia e delle caviglie rispetto alla linea mediana.

Nei casi particolarmente evidenti è consigliabile anche un esame radiografico degli arti inferiori e del bacino, per poter valutare la rima articolare delle ginocchia, rispetto all’ angolo coxo-femorale e alla conformazione del bacino, in maniera da avere un quadro sufficientemente preciso sullo stato in essere dei punti chiavi da indagare.

L’esame clinico sarà necessario per indagare se il ginocchio abbia perso di stabilità capsulo legamentosa e per capire se ci sono dei sintomi nascosti, muscolari, tendinei, meniscali, posturali che possano creare delle condizioni di predisposizione patologica immediata o futura.

La terapia

La terapia sarà differente se considerata in età evolutiva o in età adulta.

In età evolutiva sarà mirata a ricondizionare l’assetto del ginocchio in modo da recuperare il giusto posizionamento dei capi articolari.

Sarà fatto monitorizzando le cartilagini di accrescimento e il loro stato di salute, riducendo il peso, nel caso in cui ci sia una tendenza all’obesità oppure un’ obesità conclamata.

Sarà importante studiare anche l’alimentazione e lo stato ormonale in caso ci sia una forma di rachitismo o di riduzione dello sviluppo evolutivo.

Sempre rimanendo sui bambini si cercherà di corregge la postura del ginocchio rispetto al bacino alla zona di passaggio vertebrale tra le curve di cifosi e lordosi, rispetto al l’appoggio dei piedi e agli archi plantari.

Sarà necessario correggere il bilanciamento muscolare tra i gruppi antagonisti ed agonisti in modo da portare in sinergia le forze agenti sull’assetto dell’articolazione del ginocchio.

Ginocchio_valgo_varo_08Negli adulti la situazione diventa più preventiva nei riguardi dello sviluppo di patologie secondarie future, piuttosto che correttiva come nei bambini; gli adulti avendo ormai strutturato la loro deformazione in valgismo o varismo che sia, vanno indirizzati nell’evitare che questa condizione possa creare alterazioni anatomiche di tipo artrosico, meniscali, legamentose e capsulari, con la comparsa di dolori di tipo infiammatori o compressivi-distrattivi, tipici di queste situazioni.

Gli interventi saranno guidati dalla fisioterapia o dal l’osteopatia che correggeranno le disfunzioni articolari, muscolari, dei tessuti connettivi di giunzione e di rinforzo, la postura vertebrale, in maniera da bilanciare l’organismo e di tenero in equilibrio il più possibile.

Non è da sottovalutare l’utilizzo di plantari di sostegno e di tutori articolati contenitivi del ginocchio, per evitare lo stress nei lunghi periodi di attività fisica delle articolazioni protagoniste.

Nei casi dove sarà evidente un’ infiammazione o una sofferenza cartilaginea sarà possibile intervenire farmacologicamente con l’utilizzo di antinfiammatori e acido ialuronico.

Ginocchio_valgo_varo_09La chirurgia ha un suo peso specifico con l’osteotomia devalgizzante o devarizzante, capace di recuperare i gradi necessari a riportare in equilibrio l’articolazione del ginocchio.

È un intervento complesso che può dare dei grandi risultati, ma va effettuato solo nei casi eclatanti di gravi cambiamenti angolari e di forti ripercussioni sullo stato di salute ortopedico del paziente.

Il ginocchio valgo/varo, può esse affrontato, curato o gestito nel trascorrere del tempo, i mezzi ci sono e sono validi, ascoltiamo il nostro corpo, guardiamolo e ne trarremo grandi benefici.