Rotula bipartita

Rotula bipartita 01La rotula bipartita è una patologia a carico del ginocchio, che si caratterizza per una mancata fusione di uno (o più di uno) dei nuclei di ossificazione, rispetto all’unità primaria della rotula stessa.

La rotula è un osso definito sesamoide, il più grande nel contesto del corpo umano, che si posiziona anteriormente all’articolazione femoro-tibiale del ginocchio, contenuto in un sistema crociato formato dal tendine del muscolo quadricipite, dal tendine rotuleo e dai reticoli laterali e mediali della rotula.

Ha il compito di ottimizzare la funzione del muscolo quadricipite, rispetto ad un asse apparentemente svantaggioso, che si sviluppa tra la diafisi femorale e quella tibiale.

La rotula bipartita non è una patologia molto frequente, si stima che possa arrivare ad un massimo del 6% della popolazione e nella maggior parte dei casi il suo riscontro è totalmente fortuito, in virtù del fatto che è pressoché asintomatica; solamente il 2% di chi ne è affetto, riferisce una sintomatologia che conduce il paziente a visita dallo specialista.

Conseguentemente a quanto detto, la diagnosi di rotula bipartita viene elaborata nella stragrande maggioranza dei casi, in concomitanza di esami casuali inerenti al ginocchio, per indagare patologie indipendenti a carico dell’articolazione stessa.

Rotula bipartita 02La rotula bipartita ha una classificazione specifica, che viene catalogata in base al posizionamento del frammento rotuleo non ossificato:

  • bipartitismo di tipo 1

mancata ossificazione del polo inferiore (5%)

  • -bipartitismo di tipo 2

mancata ossificazione del polo laterale (20%)

  • bipartitismo di tipo 3

mancata ossificazione del polo supero-laterale (75%)

Va aggiunto che in una sottoclassificazione, lo stato in essere della patologia, può differenziarsi tra una bipartizione della rotula o in una tripartizione, a seconda di quanti sono i nuclei di ossificazione che non portano a termine il loro sviluppo all’interno del contesto osseo sesamoideo.

Rotula bipartita 03Generalmente la rotula bipartita è asintomatica, ma nei casi in cui dovesse venire a manifestare dei segni patologici, il paziente riferirebbe:

  • dolore nella zona anteriore del ginocchio
  • limitazione nella flessione e nell’estensione articolare in prossimità dei gradi estremi
  • presenza di gonfiore associato a dolenzia, nella zona perirotulea
  • riduzione della forza e della resistenza dei muscoli della coscia.

Questa serie di sintomi comporta una riduzione di funzione dell’articolazione del ginocchio, con una perdita delle capacità ordinarie e ludiche, non totalmente invalidanti, ma sufficientemente fastidiose al punto tale da dover ricorrere allo specialista.

La patogenesi della rotula bipartita è da imputare alla mancata ossificazione dei nuclei di accrescimento cartilaginei in relazione con l’unità primaria rotulea, come avevamo accennato all’inizio dell’articolo.

Le cause della mancata ossificazione possono riscontrarsi in:

  • eventi traumatici
  • infarto vascolare della zona
  • trazioni muscolo-tendinee e legamentose eccessive
  • alterazioni del metabolismo
  • la combinazione dei fattori sopra citati.

Se il paziente è asintomatico, il riscontro della bipartizione rotulea è del tutto fortuito ed avviene in concomitanza di esami articolari, richiesti per delle patologie associate al ginocchio del tutto indipendenti.

Rotula bipartita 04Nel caso in cui invece il paziente manifesti un disagio patologico, è bene procedere ad una visita specialistica, dove in appoggio all’esame obiettivo, verranno richieste delle indagini diagnostiche per valutare la presenza del distacco parcellare rotuleo e lo stato in essere dell’osso sesamoide, rispetto alle strutture muscolo-tendinee e legametose.

dolore-ginocchioGli esami di supporto sono l’RX e la TC, che ci permettono di valutare con attenzione lo stato anatomico osseo, mentre l’esame RM, ci permetterà di valutare la presenza del bipartitismo rotuleo, in relazione ai tessuti molli ad esso annessi.

La rotula bipartita viene messa in trattamento solamente nei casi in cui sia sintomatica e invalidante nelle attività di vita quotidiana.

Il primo approccio e di natura farmacologica e fisioterapica.

A livello farmacologico vengono utilizzati farmaci antinfiammatori della categoria FANS, con l’intento di ridurre l’infiammazione e l’edema concomitante.

Possono essere associati farmaci antidolorifici e molecole antiedemigene per limitare la soglia di dolorabilità e interrompere l’arco riflesso che induce alla contrattura antalgica riferita.

L’antiedemigeno ha il compito di ridurre l’edema e con esso diminuire l’effetto compressivo sui compartimenti periarticolari rotulei, migliorando l’escursione articolare e lo scorrimento delle catene miofasciali.

Rotula bipartita 06La fisioterapia ha il ruolo di recuperare le capacità motorie e funzionali dell’articolazione del ginocchio e di recuperare le capacità tonico-trofiche della muscolatura associata, che otterranno il massimo del beneficio, se associate ad un allenamento propriocettivo, mirato ad aumentare le risposte integrate dei meccanocettori articolari.

Sempre nell’ambito fisioterapico, la sintomatologia associata alla rotula bipartita, può essere affrontata grazie  all’utilizzo di terapie antinfiammatorie e biostimolanti, mediante l’utilizzo di apparecchiature dedicate.

Nel caso in cui i protocolli sopra indicati, non sortiscano l’effetto sperato, sarà necessario ricorrere alla chirurgia per via artroscopia o per accesso a cielo aperto.

chirurgiaIn entrambi i casi l’intento sarà indirizzato in 3 possibili direzioni:

  • escissione del frammento rotuleo
  • lisi del retinacolo rotuleo
  • distacco dell’area inserzionale del vasto laterale.

Ovviamente il tipo di intervento chirurgico sarà indirizzato in base alla categoria di appartenenza della bipartizione rotulea.

Per quanto riguarda la scelta del tipo di intervento, se in artroscopia o a cielo aperto, si protende a scegliere la via artroscopica, per ridurre gli effetti del danno chirurgico, ma non sempre sarà una scelta possibile, perché la complessità dell’intervento può far protendere il chirurgo ad una accesso a cielo aperto, operando con maggior sicurezza e con un campo di azione maggiore.

L’intervento chirurgico, di qualsivoglia natura, avrà la necessità di sottoporre il paziente ad un periodo di riabilitazione, in grado di ottimizzare il recupero articolare, muscolare, propriocettivo e di eliminare gli effetti dell’atto chirurgico stesso.

La rotula bipartita è una patologia generalmente silente, che difficilmente pone il paziente in una condizione di crisi, ma nel caso in cui dovesse manifestare una sintomatologia, ha la possibilità di risoluzione, intervenendo su vari fronti e con una percentuale di successo molto alta.

La salute passa attraverso la conoscenza e con l’articolo di oggi abbiamo la possibilità di aggiungere un tassello al nostro benessere.

 

 

Sindrome compartimentale

La sindrome compartimentale è un aumento della pressione nel compartimento muscolare, chiuso all’interno del suo involucro fasciale.

L’involucro fasciale di contenimento, è costituito da tessuto connettivo di tipo fibroso, caratterizzate dall’insieme di strie di collagene ravvicinate tra di loro.

Il rapporto che la fascia ha con il muscolo è di contenere il muscolo stesso, di dargli una forma, di metterlo in collegamento e relazione con le altre strutture muscolari contigue, creando quella che si chiama catena miofasciale.

Sindrome compartimentale 01Il compartimento fasciale non ospita solamente il muscolo, ma anche i vasi sanguigni arterio-venosi e linfatici segmentali, insieme alle strutture neurologiche di passaggio.

Generalmente la pressione nel compartimento fasciale, si innalza per edemi o per emorragie e dato che il tessuto fasciale di contenimento muscolare non ha una grande capacità elastica, anzi tende ad essere rigida, per garantire sostegno e protezione alle strutture che ospita, non ha una capacità di adattarsi e di dissipare gli aumenti di contenuto e quindi di pressione.

Sindrome compartimentale 02La pericolosità della sindrome compartimentale, sta nel fatto che l’innalzamento pressorio all’interno di uno spazio chiuso e poco espandibile, genera una compressione importante principalmente sui vasi, sia venosi che arteriosi, dove nel primo caso ne riduce il drenaggio del sangue arricchito di cataboliti, aumentando l’acidità del ph nel tessuto e accendendo un processo infiammatorio, nel caso invece di una compressione arteriosa si genera un principio di ipossia e anossia, dovuta alla minor irrorazione del sangue arricchito di ossigeno nei tessuti, con la complicanza di poter causare una necrosi cellulare dei tessuti coinvolti.

Infine sempre la compressione, caratteristica della sindrome compartimentale, applicata e protratta sui nervi periferici segmentali, rischia di creare una sofferenza del nervo stesso, sino ad arrivare ad una denervazione locale ed eccentrica.

La sindrome compartimentale può svilupparsi in ogni parte dl corpo, ma statisticamente le parti più colpite sono i segmenti periferici, pertanto gli arti superiori e inferiori.

La sindrome compartimentale viene divisa in due classificazioni:

  • forma acuta che insorge improvvisamente ed è molto pericolosa per lo stato di salute segmentale in primis e sistemica a seguire
  • forma cronica che insorge in maniera progressiva, è meno pericolosa ed è più facilmente gestibile.

Sindrome compartimentale 03I sintomi che si manifestano hanno degli aspetti comuni nonostante le due diverse forme.

Il dolore, il senso di intorpidimento, la tensione muscolare, la rigidità muscolare, i crampi muscolari, la riduzione di forza, il formicolio, le alterazioni di sensibilità parestetiche, sono condizioni variabili a seconda della gravità con cui si presenta la sindrome compartimentale.

La differenza tra la forma acuta e la forma cronica, è che nella forma acuta i sintomi si presentano anche a riposo, con una difficoltà riscontrata già nelle attività minime di vita quotidiana, fino a risultare addirittura impossibili in quelle attività che richiedono uno sforzo o un resistenza protratta, mentre nelle forme croniche i sintomi si esacerbano nelle attività prolungate, abbinate al massimo sforzo, alla massima resistenza o alla massima escursione di allungamento delle fibre muscolari tendinee .

Sindrome compartimentale 04Per la differente manifestazione clinica e sintomatica, va detto che la condizione acuta rappresenta un quadro di urgenza, dove il protrarsi della situazione può causare dei danni irreparabili, mentre la condizione cronica può essere gestita, anche se va monitorata con attenzione, per evitare che la sua evoluzione possa causare dei danni importanti con un’alterazione cellulare irreversibile.

Come accennavamo all’inizio dell’articolo le cause della sindrome compartimentale sono da imputarsi ad edema di importanti dimensioni o peggio ancora ad emorragia, che aumentano il volume compressivo all’interno della sacca fasciale di contenimento del segmento muscolare interessato, senza la possibilità di compensare in maniera elastica l’espansione del volume stesso.

Sindrome compartimentale 05Le cause della sindrome compartimentale acuta sono da imputarsi a:

  • lesioni muscolari importanti associate a strappo o lacerazione delle fibre stesse
  • traumi da schiacciamento del segmento
  • fratture ossee del segmento inerente
  • bendaggi compressivi eccessivamente stretti
  • applicazioni di apparecchi gessati eccessivamente stretti
  • interventi chirurgici che abbiano la complicanza di stravasi vascolari
  • ustioni gravi che portino ad un copioso stravaso edematoso
  • abuso di alcol o di farmaci che possano causare un edema importante

Nella sindrome compartimentale acuta l’evoluzione patologica evolve nel giro di poche ore e proprio per la sua irruenza nella manifestazione, richiede un intervento medico tempestivo.

Le cause della sindrome compartimentale cronica sono da imputarsi a:

  • gesti fisici ripetuti, che prevedono un massimo effetto di allungamento ed elongazione delle fibre muscolo-tendinee e capsulo-legamentose.
  • attività fisiche protratte nel tempo e dall’importante impegno dell’apparato muscolo-scheletrico

Nella sindrome compartimentale cronica è spesso il paziente stesso a riuscire a gestire la sua patologia, ottimizzando i tempi di riposo e di recupero in base allo stato di salute e all’impegno fisico programmato.

Nella diagnosi della sindrome compartimentale, l’anamnesi è il primo approccio, dove il racconto del paziente inerente agli eventi antecedenti all’insorgere della patologia e l’esposizione dei sintomi riferiti, sono da associare all’esame obiettivo, che lo specialista sanitario deve condurre per indagare lo stato di salute e di funzione, associabile alla patologia presunta.

Sindrome compartimentale 06L’esame radiografico viene utilizzato nel caso ci siano sospetti di traumi osteo-articolari, con la presenza di fratture o lussazioni.

La risonanza magnetica può risultare molto utile nel caso sia necessario indagare lo stravaso di liquido edematoso o emorragico, nel compartimento segmentale sofferente.

Con lo stesso intento si può ricorrere all’esame ecografico, che in maniera sufficientemente soddisfacente, è in grado di fornirci le stesse informazioni sulla presenza di edemi, emorragie e danni dei tessuti molli.

L’ecocolordoppler ha lo scopo di studiare il flusso ematico e la pervietà delle vie vascolari.

L’esame elettromiografico potrà rendersi necessario nel caso si sospetti un danno neurologico periferico, per effetto compressivo o anossico.

Sindrome compartimentale 07Non ultimo può essere utilizzato un misuratore di pressione compartimentale, che per mezzo di un ago, monitorizza lo stato pressorio, sia nella statica, che nella dinamica del movimento passivo e attivo.

Il tarattamento della sindrome compartimentale è diverso nel caso sia una forma acuta o conica, ma  in entrambi l’obiettivo comune è ridurre la compressione causata dall’aumento della pressione nel compartimento singolo o multiplo, eliminando, dove sia possibile, le cause che hanno condotto alla sindrome.

Sindrome compartimentale 08Nella forma acuta il trattamento è quasi sempre chirurgico e nella maggior parte dei casi, eseguito in urgenza, facendo una fasciotomia, che prevede l’incisione della fascia di contenimento, per far drenare il contenuto liquido decomprimendo la zona.

Il drenaggio può durare anche 3 giorni, per evitare che alla chiusura dell’accesso chirurgico, si possa ripresentare la patologia come in origine.

Nella forma cronica invece il trattamento è di tipo conservativo optando per associare periodi di riposo, alla gestione dello sforzo fisico in relazione agli impegni lavorativi o sportivi, in maniera da non arrivare ad episodi di overstress dell’apparato muscolo-scheletrico.

Sindrome compartimentale 09È importante riuscire a fare esercizi di allungamento e di articolarità, per ottimizzare le funzioni locomotorie ed essere pronti e predisposti allo sforzo richiesto nel gesto atletico, ludico o lavorativo.

La fisioterapia ha la sua importanza per la gestione dell’edema, della retrazione muscolo-tendinea, dell’infiammazione, del disimbrigliamento del nervo nei suoi canali di passaggio.

Può risultare molto utile anche l’utilizzo di calze o bracciali drenanti a compressione graduale, per il drenaggio dei liquidi in eccesso verso i punti circolatori di affluenza primari.

A livello farmacologico sono di grande aiuto l’utilizzo di antinfiammatori, che possono variare dai FANS ai cortisonici, nel caso ci sia la necessità di affrontare un processo infiammatorio, oppure di gestire un’infiammazione associata ad un’edema di recente manifestazione.

Anche gli antiedemigeni possono essere utili nel caso in cui sia necessario utilizzare un supporto a fronte di protocolli fisioterapici in atto.

Non ultimo sarà opportuno fare delle applicazioni di ghiaccio, più volte al giorno, che possano fungere sia da antinfiammatorio naturale e sia da vasocostrittore, per il contenimento dello stravaso edematoso o emorragico.

Alla fine della gestione della sindrome compartimentale, (acuta o cronica che sia) il riaffacciarsi alla ripresa delle attività fisiche lavorative o sportive, deve avvenire in maniera graduale, allenando la struttura sia allo sforzo, sia alla ripetitività del gesto, che alla resistenza.

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Lesione slap nella spalla

Per lesione slap si definisce una lacerazione della parte superiore del cercine glenoideo, che stando alla definizione, interessa la porzione antero-posteriore.

Il cercine glenoideo è una fibrocartilagine che circonda la glena scapolare, ottimizzando il rapporto articolare tra la testa dell’omero e la glena stessa, stabilizzando l’articolazione in sinergia con la capsula e i legamenti articolari, riducendo il rischio di lussazione.

La porzione superiore del cercine glenoideo, offre un ancoraggio ad una porzione del tendine del capo lungo del bicipite.

Le lesioni slap sono state catalogate con molteplici varianti; ne enunceremo 10 di esse, ma va detto che le prime 4 sono quelle che maggiormente vengono riscontrate e che hanno un meccanismo patogenico più comune.

  • Lesione slap 01tipo 1:

Sfaldamento degenerativo della porzione superiore del cercine glenoideo, senza segni di di distacco, ne di di perdita di congruità con la porzione inserzionale del capo lungo del bicipite.

  • tipo 2:

Distacco antero-superiore, o postero-superiore, o antero-postero-superiore  del cercine glenoideo e di una porzione dell’inserzione tendine del capo lungo del bicipite, con conseguente instabilità della spalla.

  • tipo 3:

Lesione a manico di secchio del cercine glenoideo, senza interessamento tendineo dell’aggancio del capo lungo del bicipite.

  • Lesione slap 02tipo 4:

Lesione a manico di secchio associata ad una lacerazione parziale dell’ancoraggio della porzione del capo lungo dl bicipite.

  • tipo 5:

Lesione di Bankart ovvero una lesione della porzione antero-inferiore del cercine, associata ad una lesione di tipo 2.

  • tipo 6:

Lesione di una porzione della parte superiore del cercine, con distacco dell’ancoraggio del capo lungo del bicipite.

  • tipo 7:

Lesione slap 03Distacco della porzione superiore del cercine glenoideo e del tendine del capo lungo del bicipite

  • tipo 8:

Estensione della lesione slap posteriormente oltre misura.

  • tipo 9:

Lesione slap che si estende su tutto il perimetro del cercine glenoideo.

  • tipo 10:

Lesione di bankart inversa, ovvero lesione della porzione postero-inferiore del cercine glenoideo.

Come abbiamo visto le lesioni slap per la loro differente natura, oltre che ad eventi traumatici, hanno dei fattori di rischio che ne potenziano la patogenesi quali:

  • i fattori di invecchiamento biologici legati all’età
  • le lassità capsulo-legamentose congenite, o acquisite dopo eventi traumatici
  • i movimenti ripetuti, con elevazione del braccio sopra la linea della spalla e della testa.

Nel quadro sintomatologico, il dolore nella zona periarticolare, si associa ad una limitazione dei movimenti e ad una perdita di forza nell’esecuzione del gesto voluto, alle volte associato a degli scrosci.

Lesione slap 04I movimenti che risultano maggiormente deficitari nella lesione slap sono:

  • l’abduzione semplice
  • l’abduzione al di sopra della linea della spalla
  • l’abduzione associata alla massima extrarotazione
  • l’abduzione associata all’estensione del braccio
  • l’extrarotazione semplice
  • l’intrarotazione del braccio, associata alla retropulsione.

Più la lesione slap è complessa e maggiori sono i movimenti singoli o associati deficitari, o impossibilitati nella loro esecuzione.

Anche la stabilità della spalla viene compromessa, mettendo a rischio lo stato di salute delle strutture capsulo-legmentose e muscolari, che interagiscono in maniera sinergica nella biomeccanica articolare.

Lesione slap 05Il dolore tende a localizzarsi nella zona anteriore o antero-laterale della spalla, che corrisponde sia alla sede della lesione del cercine glenoideo, sia alla zona di aggancio del capo lungo del bicipite brachiale, anche se non è raro trovare una migrazione del dolore nella zona posteriore della spalla che può estendersi fino al margine ascellare.

Il dolore oltre che essere presente durante i movimenti, sopratutto quelli che al di là della linea delle spalla, o peggio ancora, al di sopra della testa, può comparire anche durante le ore notturne se il paziente si corica dal lato dell’articolazione sofferente, mandando in compressione la testa omerale contro la cavità glenoidea e traslandola in superiorità.

La lesione slap può essere il risultato di un trauma della spalla, come una caduta sul braccio teso, un trauma diretto, una lussazione, una trazione violenta con il braccio in abduzione ed extrarotazione, un’iperestensione della spalla non coordinata con la contenzione tonica riflessa della muscolatura inerente, ma nella maggior parte dei casi, il cercine glenoideo si lesiona anche solo per il normale processo di invecchiamento della persona.

Il processo di invecchiamento è quasi sempre associato ad una degenerazione delle strutture tendinee, legamentose e cartilaginee, per cui il cercine glenoideo che sviluppa una fissurazione, ha un percorso di perdita di funzione e di dolorabilità che rimane sopito, per poi manifestarsi in maniera subdola e progressivamente invalidante.

Lesione slap 06Il sovraccarico funzionale è un’altro fattore determinante nello sviluppo della lesione, perché la ripetitività del gesto nelle condizioni di stress funzionale, porta ad una lacerazione anzitempo del cercine stesso.

Può interessare sia gli sportivi che utilizzano un movimento ripetitivo del braccio sopra la linea della spalla e peggio ancora della testa, associata ad extrarotazione, elevazione ed abduzione del braccio stesso.

Anche alcune categorie professionali possono essere interessate da questa tipologia di lesione, se utilizzano un movimento combinato come sopra descritto.

Le tendinopatie delle componenti stabilizzatrici della spalla (cuffia dei rotatori) e del capo lungo del bicipite, possono portare ad una slap, sia per il cattivo centramento della testa omerale rispetto alla glena, sia per il rapporto patologico che si può instaurare con l’aggancio del capo lungo lungo del bicipite brachiale sulla porzione cercinea glenoidea.

Lesione slap 07Nella diagnosi di lesione slap, l’anamnesi è il punto di partenza per poter identificare la presenza o meno di un trauma, così come il resoconto dei sintomi raccontati dal paziente, le compromissioni nello svolgimento delle attività di vita quotidiane e il tipo movimento che viene richiesto alla spalla sia nell’ambito lavorativo che ludico, rispetto alle caratteristiche di una lesione slap.

L’esame obiettivo dello specialista mira ad effettuare una serie di test che mettono alla prova la funzione della spalla sia nei movimenti attivi che passivi in rispondenza dell’esacerbazione del dolore e della resistenza articolare nell’attivazione muscolare congrua alla ricerca del movimento specifico.

Per quanto riguarda la diagnostica per immagini, risultano utili sia le immagini RX che quelle di RM.

L’RX di spalla ha il compito di valutare lo stato in essere delle strutture articolari, sia a livello della testa omerale che della glena scapolare, osservando l’eventuale presenza di artrosi, la riduzione degli spazi articolari, o la mal posizione della testa omerale in relazione ai regolari rapporti articolari scapolari e clavicolari.

Lesione slap 09La RM invece valuta lo stato anatomico sia del cercine glenoideo, sia delle strutture muscolo-tendinee e capsulo-legametose della spalla.

Nel caso la RM non sia in grado di fornire un’immagine sufficientemente chiara sullo stato anatomico del cercine glenoideo, si può richiedere un’ artro-risonanza con mezzo di contrasto, capace di valutare in minuzioso dettaglio, la consistenza del cercine e non solo.

La terapia di primo approccio scelta per la gestione della lesione slap è conservativa.

Le lesioni da invecchiamento o da sovraccarico funzionale, reagiscono abbastanza bene a questa strada terapeutica.

Verranno pertanto utilizzati:

  • farmaci antinfiammatori
  • applicazioni di ghiaccio
  • riposo articolare, che nelle situazioni più avanzate, può associarsi all’utilizzo di un tutore, variabile nel tempo, dai 15 ai 30 giorni
  • fisioterapia mirata al recupero articolare, al ricondizionamento delle sinergie muscolari, all’ottimizzazione del tono-trofismo muscolare, al miglioramento delle cooperazioni biomeccaniche tra la spalla, il cingolo scapolare, la colonna vertebrale e non ultimo, un allenamento del sistema propriocettivo articolare.

La terapia conservativa non ha la capacità di guarire la lesione del cercine glenoideo, ma ha l’intento di ridurre l’infiammazione e di ottimizzare le funzioni residue della spalla, per ottenere la massima performance possibile nelle attività di vita quotidiane.

Nel caso in cui la terapia conservativa non dovesse ottenere i risultati sperati, mantenendosi una situazione di dolore, di limitazione funzionale, di perdita di forza e resistenza, allora sarà necessario intervenire con la chirurgia.

Le indicazioni chirurgiche hanno un’elevata validità, in tutti quei pazienti di giovane età, che hanno necessità di utilizzare la spalla con un’alta performance, sia per motivi lavorativi che sportivi.

Generalmente si interviene per via artroscopica, riducendo le problematiche della cicatrizzazione nello short time e delle possibili aderenze periarticolari associate alle rigidità nel long time.

Lesione slap 10I tipi di intervento si differenziano a seconda del danno che la slap presenta.

Si può procedere con un’asportazione (DEBRIDMENT) della pozione di tessuto cercineo danneggiato, se la struttura in questione non ha un danno molto esteso, oppure se l’articolazione non mostra danni collaterali di rilievo.

La riparazione del cercine invece è un intervento più gravoso, perché prevede la sua ricostruzione tramite l’utilizzo di viti riassorbibili e di punti di sutura, pertanto verrà utilizzato nelle lesioni complesse che vedono un’area estesa e la complicanza delle strutture tendinee associate, in particolare modo dell’ancoraggio del tendine del capo lungo del bicipite.

Proprio per quest’ultimo fattore, spesso insieme alla ricostruzione del cercine glenoideo, si deve procedere ad una tenodesi, tagliando la porzione inserzionale cercinea del capo lungo del bicipite e inserendola sulla struttura ossea omerale nella prossimità, sufficientemente stabile e funzionale.

In entrambi i casi sarà necessario procedere con un periodo di riabilitazione, ma appare intuibile che nel caso dell’asportazione, il periodo di recupero sarà sufficientemente breve, ovvero già nell’arco di 45 giorni il paziente riesce a recuperare un’autonomia più che buona, per avere un risultato ottimale e altamente performante, in un lasso di tempo che difficilmente supera i 90 giorni.

Lesione slap 11Nel caso invece della ricostruzione, quasi sempre associata alla tenodesi, il periodo è decisamente più lungo, ed inizia con un tempo di immobilizzazione della spalla in tutore per i primi 30 giorni, durante il quale è consentito di lavorare sulle zone di cooperazione biomeccanica della spalla, arrivando ad una riabilitazione completa e ad un recupero soddisfacente nell’arco di 6 mesi circa, escluse complicanze.

In definitiva la lesione slap ha molteplici aspetti che ne definiscono il danno e l’impatto sul paziente.

L’inefficienza e il dolore che causa al paziente, deve essere gestito a tutto tondo, potendo intervenire sia in maniera conservativa che chirurgica, ma proprio per la complessità dell’eventuale periodo post operatorio, vale la pena provare in prima battuta un impegno terapeutico conservativo, per poi ripiegare nella chirurgia, qualora non sia abbiano ottenuti i benefici sperati.

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